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Moschee, l’invasione silenziosa: in Italia sono già più di 600

Tra silenzi imbarazzati e mezze ammissioni, la scoperta che nel nostro Paese negli ultimi 5 anni i luoghi di preghiera islamici sono più che triplicati

Domanda semplice: quante sono le moschee in Italia? Mistero. Lo ignora l'Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche nata dall'organizzazione radicale dei Fratelli musulmani e protagonista delle roventi polemiche estive contro Israele, che è il gruppo cui è legato il numero maggiore di locali di preghiera nel nostro Paese. Non lo sa la Lega musulmana, dalla quale dipendono il Centro culturale islamico d'Italia e la moschea di Roma. Non filtrano dati precisi nemmeno dal ministero dell'Interno, cui pure fa capo la Consulta islamica. La stessa Consulta nega che sia affar suo. In sostanza, non se ne occupa nessuno. Niente censimenti che diano un'idea della dimensione complessiva di un fenomeno in crescita tanto silenziosa quanto costante.
Altra domanda: si tace perché si ignora, oppure perché si vuole mantenere il segreto? Anche questo interrogativo è destinato a restare insoluto. Circolano soltanto voci difficili da verificare. A Colle Val d'Elsa, nell'incandescente terra di Siena dove è in costruzione una nuova, grande e contestatissima moschea, l'imam Ferras Jabareen (senza però specificare la fonte) parla di 612 associazioni islamiche con luogo di preghiera annesso. Cifra ridimensionata da Hamza Piccardo, portavoce dell'Ucoii, che ammette di conoscere 250 indirizzi, di cui 160 direttamente legati alla sua associazione: ma l'elenco dettagliato dei centri islamici (città, recapito e telefono) è stato cancellato dal sito Internet dell'Unione.
Ignoranza e misteri
Nel 2002, quando le cose erano un po' più trasparenti, l'Ucoii dichiarava ufficialmente 133 luoghi di culto, più altri 120 segnalati ma non verificati, più un altro centinaio di centri sorti qua e là disordinatamente, senza pianificazione. In totale, circa 350. Appena un anno prima Magdi Allam, nel libro «Islam, Italia», ne contava 214 distinti in quattro tipi: le tre moschee vere e proprie (a Roma, Catania, Segrate, con tempio e minareto); una trentina di centri culturali islamici; un'ottantina di centri islamici e un centinaio di semplici luoghi di culto. Siamo alle soglie del 2007. Se si considera l'aumento dei musulmani in Italia e il consolidarsi delle comunità, l'ipotesi di 600 moschee non solo verrebbe confermata ma potrebbe rivelarsi addirittura riduttiva. A queste vanno aggiunte le sale di preghiera delle varie confraternite musulmane come per esempio quella della muridiya, che trova adepti soprattutto tra i senegalesi e ha la capitale a Pontevico (Brescia), dove una vecchia fabbrica di biciclette è stata trasformata nel più grande luogo di culto murid d'Europa.
Sul web si trovano elenchi dai quali si possono ricostruire quasi 400 riferimenti, dai circoli regolarmente costituiti fino a semplici indirizzi di posta elettronica di aspiranti imam. La maggiore concentrazione (oltre la metà) è al nord: 55 in Piemonte, 65 in Lombardia, 35 in Veneto, una decina in Friuli, oltre 20 in Liguria, una cinquantina scarsa in Emilia Romagna e una dozzina in Trentino Alto Adige. Perché al nord? «In realtà la terza comunità islamica italiana è a Napoli - dice Piccardo - ma le moschee nascono dove c'è stabilità. E la stabilità presuppone il lavoro, mentre il sud è la patria del precariato e del lavoro nero». Comunque, stando a Internet, in Campania le associazioni islamiche sono quasi una trentina.
Una riproduzione rapida
Dunque, la moltiplicazione delle moschee significa che l'islam, seconda religione più diffusa in Italia, si consolida di anno in anno. Secondo uno studio del ministero dell'Interno basato sui dati del dossier annuale Caritas-Migrantes, è praticata da oltre 1.200.000 persone, circa il 2,5 per cento della popolazione. Numero destinato a crescere rapidamente, visto che un bambino su 10 è straniero (addirittura 1 su 5 nelle regioni del Nord).
Ma non c'è soltanto il fattore demografico: è anche aumentato il numero dei musulmani praticanti. Nel 2001 Allam sosteneva che non più del 5 per cento degli maomettani seguisse rigorosamente i precetti del Corano. Ora gli studiosi sostengono che la quota ha superato il 20 per cento. E basterebbe girare per i quartieri a forte presenza straniera per constatare quanto siano aumentati i veli. Dopo l'11 settembre 2001 i gruppi più radicali si sono rinsaldati, i fedeli più lontani sono stati «re-islamizzati» e costretti ad allontanarsi dagli influssi occidentali. Così la sempre più estesa rete di moschee, oltre a consentire le pratiche rituali di una galassia polverizzata di fedeli, serve anche a riprendere il controllo dei musulmani tiepidi, moderati o laicizzati e ad accrescere il peso delle organizzazioni come l'Ucoii.
Gli statuti in fac-simile
Formalmente, in mancanza di una forma di concordato, non si potrebbe parlare di moschee se non per l'edificio di Roma. Per aprire un luogo di preghiera si costituisce un centro o associazione islamica (bastano tre persone: presidente, segretario e tesoriere), registrarla in Comune o in Provincia sborsando poche decine di euro e affittare un locale. Di solito gli statuti sono basati sui modelli distribuiti dall'Ucoii.
I musulmani pregano in garage, palestre, scantinati, magazzini, capannoni industriali abbandonati, stanzette concesse sui luoghi di lavoro. Nulla di paragonabile con lo splendore dei grandi templi moreschi della Spagna meridionale o di Istanbul; del resto le moschee non sono templi consacrati come le chiese cristiane e gli arredi sono ridotti al minimo: un locale per le abluzioni rituali, scaffali per le scarpe, tappeti sgargianti, un leggio che sostituisce il pulpito dell'imam, una nicchia orientata verso la Mecca. La sacralità è garantita dal semplice fatto che qualcuno si prostri in direzione della pietra nera e reciti le preghiere rituali.
Imam, carriere veloci
Gli imam, cioè i «dottori» coranici, vengono scelti dalle varie comunità. Nei Paesi dove l'islam è religione di stato le cose non funzionano così: è il ministero degli Affari di culto che nomina i predicatori, accerta che conoscano il Corano e la legge del Profeta, sorveglia che cosa dicono e cosa fanno. Controlli ferrei: mentre da noi le moschee raddoppiano, in Marocco l'anno scorso ne sono state chiuse 145. Soltanto l'imam della grande moschea di Roma viene designato da una delle massime autorità islamiche mondiali. Lo scorso giugno, alla morte di Mahmoud Shweita, il Grande imam egiziano dell'università di al-Azhar, Mohammed Sayyed Tantawi, ha spedito a Roma il quarantanovenne cairota Ala Eddin Mohammed Ismail el Ghobashy. Il quale ha dovuto aspettare tre mesi per prendere possesso della moschea in attesa del visto e di sistemare le questioni familiari.
Per il resto, da noi si diventa imam per autocandidatura confermata dai pochi praticanti. Jabareen, per fare un esempio, fisioterapista in una clinica di Firenze e fautore di una moschea per migliaia di fedeli, è stato investito da 95 elettori. Gli imam italiani fanno i lavori più diversi: quello di Carpi (Modena), un ex giornalista pakistano, è responsabile di produzione in una azienda tessile; quello di San Giovanni in Persiceto (Bologna) vive di sussidi comunali; a Torino Bouriqui Bouchta, espulso il 6 settembre 2005, gestiva tre macellerie halal. L'imam di Casalmaggiore (Cremona), operaio in un'azienda chimica, ammette che non serve nessuna specifica preparazione teologica: «Nessun conduttore ha avuto una formazione esterna. Abbiamo imparato il Corano e gli Hadith diventando adulti nei nostri Paesi di origine. Da 1565 anni il Corano non cambia. Non possiamo certo essere noi poveracci quelli che mettono in discussione la legge islamica».
Accade così che vengano eletti non i più dotti ma i più loquaci, i più intraprendenti, i più legati alle varie organizzazioni. Non ci sono controlli, e se ne lamentano gli stessi moderati che chiedono allo Stato un'intesa complessiva (cioè che riguardi anche questioni come le scuole islamiche, la macellazione rituale, le sepolture). Nessuna garanzia sull'ortodossia della predicazione, sulla precedente formazione culturale e religiosa, sulla conduzione delle attività dei centri. E tra insegnamento religioso e centrale di indottrinamento il confine è quanto mai sottile.


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