La movida estiva è un vero incubo Ma si può fermare

Caro Granzotto, come da lei annunciato, è cominciato il grande fracasso estivo e non bisogna essere monaci cistercensi amanti del silenzio per augurarsi che questa estate sia un susseguirsi di piogge e temporali, meglio se notturni, tra le 23 e le 3 del mattino. Possibile che non ci sia rimedio alla moda di sparare la musica a tutto volume in luoghi pubblici all’aperto? E come è nata questa moda? Sono stato un assiduo tiratardi estivo, quand’ero giovane, ma le nostre notti bianche non avevano l’assordante accompagnamento musicale di oggi.
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Tutto ciò che diventa «di massa», caro Dallamano, è destinato a degenerare. La consuetudine di tirar tardi specie nelle tiepide sere estive è sempre stata rispettosa della regola generale e cioè che di notte la maggioranza del genere umano dorme. Ed è per questo che nei luoghi deputati, le ore piccole avevano come sottofondo il brusio delle voci, rotto di tanto in tanto dal tinnire di una risata o dal levarsi d’una esclamazione. Come del resto lei ricorda bene quelle estive erano veglie di conversazione, appagavano il piacere di stare insieme per parlarsi, per «comunicare» o «confrontarsi», come oggi s’usa dire in linguaggio massificato. Chi poi voleva semplicemente ubriacarsi di suoni si intruppava nelle discoteche dove poteva trovare tutti i decibel che desiderava. In questo modo, i princìpi della civile convenienza erano osservati: nel rispetto della quiete pubblica, tutelata fra l’altro dalle legge, ciascuno trovava il suo diletto senza pestare i piedi agli altri. Avvenne poi, siamo negli anni Ottanta, che la notte fu presa in carico da politici e sociologi che ne fecero oggetto di conquista sociale («Impadroniamoci della notte!») e palcoscenico di quell’effimero prospettato come condizione necessaria all’esistenza democratica. E fu così che il vecchio tirar tardi si massificò nella «movida», nella «conquista civile» riconducibile ai chiassosi e sgangherati riti notturni della meglio gioventù (e del meglio giovanilismo dei cinquantenni e passa). Quasi che rumore chiamasse rumore sorsero allora come funghi feste e sagre e balli e notturni giochi collettivi: nel giro di poco tempo si instaurò così la brutale dittatura del rumore e l’incanto delle notti estive andò per sempre perduto. Ed è davvero un paradosso che nell’era del «comunicare», del «confrontarsi» e del «rapportarsi», la consuetudine del tirar tardi si sia fatta assordante e dunque inadatta alla conversazione. Quel che conta non è più il mitico e sempre invocato «dialogo», ma raggiungere, facendosi bombardare dai decibel, lo stato di stordimento, di disorientata vertigine che è sorella germana dell’instupidimento.
Fino a ieri, chi lamentava l’eccessivo chiasso notturno - in pratica chi doveva rinunciare alla quiete e al sonno per i comodi dei «movideros» - veniva accusato di egoismo sociale e messo a tacere. Ma le cose stanno cambiando e a farle cambiare sono stati proprio gli eccessi, la libertà inizialmente concessa di produrre sempre più fracasso e sempre più avanti nella notte, fino all’alba. Qui a Torino, ad esempio, il sindaco è intervenuto con un paio di ordinanze per mettere la sordina alle megafabbriche di fracasso notturno, i «Murazzi» sul Po, la grande piazza Vittorio che sta alle spalle e tutta la serie di vie all’intorno, luoghi sacri alla «movida».

E ci è andato giù pesante: dopo la mezzanotte gli impianti di amplificazione dei locali all’aperto dovranno essere spenti. Così dimostrando, caro Dallamano, che metter fine all’anarchia sonora non è poi così difficile: basta volerlo.

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