L’accusa di razzismo rivolta dall’Egitto al governo italiano è talmente anomala e pretestuosa da non poter essere considerata accidentale. Perché un governo si indigna a tal punto, benché a Rosarno praticamente non ci fossero suoi concittadini? A cosa mira Mubarak?
Escludiamo subito l’ipotesi più estrema. L’Egitto continuerà ad essere un amico fidato dell’Occidente e dell’Italia in particolare. I rapporti con Berlusconi sono eccellenti, come lo erano con Prodi. Lo stesso Mubarak è venuto in visita lo scorso luglio in un clima di grande cordialità. Nel frattempo non è successo niente che potesse compromettere le relazioni.
La ragioni vanno cercate altrove, all’interno dell’Egitto, innanzitutto. Da anni Mubarak deve fronteggiare un processo di islamizzazione strisciante della società civile. Ha usato il pugno duro - e talvolta durissimo - sia per reprimere i Fratelli Musulmani sia per combattere il terrorismo fondamentalista, ma l’attentato dell’altro giorno contro i copti ha dimostrato che gli estremisti non sono ancora sotto controllo.
D’altro canto il Cairo è criticato da buona parte dell’opinione pubblica mediorientale per la linea di fermezza nei confronti dei palestinesi di Gaza, che ormai sono chiusi tra due muri, quello israeliano e, a sud, quello egiziano. E questo malumore rafforza l’opposizione interna. Mubarak aveva bisogno di un diversivo per distrarre l’opinione pubblica e modificare il proprio profilo pubblico.
La polemica con l’Italia è perfettamente strumentale a questo disegno, proprio perché puramente mediatica. Non è difficile prevedere che nel giro di qualche giorno i rapporti tra Roma e il Cairo torneranno ad essere quelli di prima. Intanto però Mubarak può presentarsi - lui, accusato di essere succube dell’Occidente - come uno dei pochi leader arabi che ha affermato a voce alta ciò che il popolo osa appena sussurrare ovvero che noi europei siamo cattivi, ingiusti e xenofobi. Un’operazione populista, ma di sicuro impatto, che permette al governo del Cairo di cautelarsi anche su un altro fronte: quello dell’emigrazione clandestina.
Sebbene molti egiziani siano ormai integrati nella nostra società, come dimostra la figura, piacevolmente simbolica e a noi familiare, del bravo pizzaiolo, la realtà è più complessa. L’elenco dei reati commessi da egiziani è lungo, mentre la risposta delle autorità diplomatiche non è sempre all’altezza. Sebbene vincolate al rispetto degli accordi internazionali, il loro comportamento appare assai disinvolto. Poco prima di Natale, il Giornale ha rivelato che il consolato di Milano assume da anni il personale locale in nero e se ne infischia di applicare le nostre leggi del lavoro. E non è che una delle anomalie di questo ufficio di rappresentanza.
Quando si tratta di collaborare per il rimpatrio dei clandestini si alza un muro di gomma. Il ministro degli Esteri del Cairo ci ha accusato, con incredibile sfrontatezza, di non rispettare le leggi, mentre è vero il contrario: qui da noi sono loro a violarle. Sistematicamente. Chiedere alle questure per conferma: i fax italiani alle autorità consolari restano senza risposta. Ma in mancanza del via libera consolare è di fatto impossibile cacciare un egiziano irregolare. È come se esistesse una strategia precisa, sebbene inconfessata, per lasciare all’estero il maggior numero di cittadini, anche quelli irregolari e i delinquenti.
Ma allora, vien da chiedersi, che interesse ha l’Egitto ad avviare la polemica proprio ora e senza appigli concreti? Non è difficile intuirlo. Quando accusi un Paese di essere razzista e di agire nell’illegalità, ti procuri una formidabile argomentazione preventiva per resistere alle pressioni.
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