Cultura e Spettacoli

La musa surrealista che preferiva immortalare la realtà

Una mostra al Jeu de Paume di Parigi e una biografia rilanciano l’opera e la personalità della grande fotografa Lee Miller. La sua bellezza fredda e androgina segnata da un trauma infantile. Ispirò Cocteau e Man Ray

Parigi - Impersonare il Destino fu per Lee Miller come una rivelazione. Seduta a un tavolo, un vestito che sembra una toga, serve le carte al giocatore che le sta di fronte. «Se non hai l’asso di cuori, mio caro, sei perduto» gli dice. L’idea era stata di Jean Cocteau, alle prese con il suo primo film surrealista a dispetto di Breton, che del surrealismo pretendeva il copyright. Lo aveva intitolato Le sang d’un poete, il suo naturalmente, e aveva in mente un volto puro e perfetto che incarnasse l’azzardo e la creazione, l’arte che vive di vita propria, l’arte che muore perché infeconda. Lee Miller aveva allora ventitrè anni e una gelida bellezza androgina, impassibile e lucente, esaltata nel bianco e nero della pellicola dal biondo-oro dei capelli e dal blu profondo degli occhi. Mai come in questo film Lee apparve per quello che era, un angelo sterminatore suo malgrado.

All’età di sette anni e alla vigilia della Prima guerra mondiale la piccola Elizabeth era stata violentata da un «amico di famiglia», uno stupro su cui era stato steso un velo sociale, ma che le aveva lasciato in eredità una malattia venerea dolorosa e oscena nel suo perpetrare il ricordo. Adolescente, l’amore per il padre aveva assunto il tono ambiguo e morboso di una relazione fra adulti, lei che si abbandonava fiduciosa verso chi non le avrebbe mai fatto del male, lui che se ne serviva come modella per delle foto di nudo, artistico-terapeutiche nelle migliori intenzioni, il corpo riscoperto come fonte di bellezza, educazione, grazia, e tuttavia ambigue nella loro forzata impassibilità. Non sorprende che in seguito, dei molti amori e dei molti amanti di cui sarà costellata la sua vita, le figure maschili fossero quasi sempre paterne, nella differenza d’età, oppure non completamente risolte nella reale virilità del partner, e comunque conflittuali nel momento in cui la libertà sessuale di lei si sentiva come minacciata.

Allieva, assistente, ispiratrice e compagna di Man Ray, Lee Miller fu a sua volta una fotografa straordinaria, e l’esposizione che il Jeu de Paume le ha consacrato, mettendo semplicemente il suo nome nel titolo, lo dimostra ampiamente. Ma è altresì affascinante, nell’irrequieta diversità, la sua stessa biografia, di cui il lettore italiano può ora leggere una versione romanzata, ma fedele, nel libro che Luca Romano le ha appena dedicato, L’angelo egoista (Neri Pozza, pagg. 190, euro 15). Fu proprio Lee, del resto, a descriversi come «un puzzle imbevuto d’acqua, tanti pezzi sparsi che non si accordano né per forma né per motivi». Un puzzle per molti versi surrealista, che procede per scarti e per assemblaggi, per negazioni e per appropriazioni indebite. Lee sarà modella, il volto di Vogue degli anni Venti, fotografa di moda, ma anche d’arte e poi di guerra, e in ultimo una distinta signora dell’upper class inglese, esperta in banchetti, chef da cordon bleu, madre di famiglia poco esemplare di un figlio poco amato che del suo passato ignorerà sempre tutto, tenutone a distanza come se lo non lo dovesse riguardare.

Della grande stagione surrealista della Parigi fra le due guerre, Lee Miller fu una figura carismatica e inquietante. Il sodalizio con Man Ray esaltò l’arte fotografica di quest’ultimo, ma rivelò anche alla musa-amante-alunna un campo d’azione di cui si impadronì con feroce determinazione. Dal suo pigmalione, Lee imparò tutto e però vi aggiunse un tocco di elegante distanza, di fredda ironia che fu la sua cifra estetica. Sotto questo aspetto le fotografie della vita quotidiana a Londra sotto i bombardamenti rimangono esemplari, una sorta di humour noir che nella foto delle due ragazze con le maschere anti-incendio ha una beffarda conferma.

Un puzzle surrealista è di per sé un enigma e nel miscuglio di femminilità e mascolinità, tensione e rilassatezza, attivismo e noia della sua esistenza c’è materiale sufficiente non per svelarlo, ma per ancor più nutrirlo. Come dirà Eileen Agar, un’altra esponente della consorteria surrealista dell’epoca, «Lee era una donna notevole, l’opposto di una donna sentimentale, e a volte una donna impietosa».

È probabile che nella separazione fra sesso e amore, rimedio psicologico suggeritole per uscire da quel trauma infantile, Lee Miller cercasse la fusione tra uno spirito ferito e ribelle e il clima di un’epoca che della libertà dei corpi e dell’eguaglianza dei generi faceva la propria bandiera. Come spesso accade, la distanza fra la teoria e la pratica non era così semplice da colmare e Lee lo sperimentò in prima persona. Alcune delle foto scattate e poi lavorate da Man Ray la mostrano con il collo sanguinante e tagliato, senza testa, incatenata, ridotta a tirassegno, la disperata pulsione distruttiva di chi soffriva per una mancanza di possesso, la gelosia borghese che si vergognava di dire il proprio nome.

Un paio di matrimoni, molto, troppo alcol, molte, troppe, sigarette, uno shock bellico da cui non si riprese mai (fu il primo foto-reporter ad entrare a Dachau), lei che nella guerra aveva visto un modo per fuggire alla noia della pace, una vita divisa in due parti, con la seconda occupata a cancellare ogni ricordo della prima, il destino di Lee Miller è all’insegna del proprio annientamento, una figura femminile che scivola sull’acqua, gli occhi trasformati in maschera mortuaria, come Cocteau l’aveva vista nel suo film.

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