Un museo nell’eremo dove Bergman creava amori e Oscar


All’isola di Farö ci arrivavi con un traghetto che ogni quarto d’ora faceva gratis la spola dalla cittadina di Farösund, l’angolo estremo a nord dell’isola di Gotland, la più grande della Svezia e del Baltico. Dal battello, mentre ti avvicinavi, vedevi dei mulini a vento e il campanile di una chiesa gotica, uniche realtà verticali di una terra brulla e piatta per un centinaio di chilometri quadrati, qui e là macchiata dai tetti rossi delle case dei pastori, a volte riadattate in case di vacanza. Le coste rocciose, interrotte da piccole insenature, si alternavano con distese di sabbia e ancora dieci anni fa metà dell’isola era zona militare, con l’accesso vietato agli stranieri, ultimo retaggio di un’epoca in cui di là dal mare c’era il nemico, ovvero l’impero sovietico.
C’erano in tutto seicento abitanti, più uno di cui si faceva finta di ignorare l’esistenza. Si chiamava Ingmar Bergman, era il più famoso e il più misterioso. Nell’unica libreria dell’isola non c’era un libro che lo celebrasse, nei dépliant turistici un rigo che ne facesse menzione, nei bar o nelle locande una fotografia che lo ritraesse. Ci viveva da più di quarant’anni, ci aveva girato cinque film e montato altri due, Il flauto magico e Fanny e Alexander, che da soli gli erano valsi quattro Oscar, portato amanti che poi erano diventate mogli e che poi se n’erano andate sostituite da altre amanti diventate altre mogli, vi aveva visto nascere e crescere dei figli. Eppure, era rimasto un’ombra. Indisturbata, inavvertibile.
Adesso che la casa è stata venduta, arredi e oggetti compresi, per una cifra che oscilla intorno ai quattro milioni di euro, a un miliardario norvegese, l’archeologo Hans Gude Gudesen, che la trasformerà in un centro artistico che ne porta il nome, viene spontaneo chiedersi non tanto che cosa attraesse Bergman lì, risposta tutto sommato facile, ma come pensasse che lì, oltre lui, con lui, ci potesse vivere qualcun altro. Con la sua abituale franchezza, che non sai se definire ingenuità, freddezza od ottusità, era un interrogativo che si era già posto: «Durante le riprese di Persona Liv Ullmann e io venimmo travolti dalla passione. Commettendo un errore colossale, costruii la casa pensando a una vita in comune. Dimenticai di chiedere a Liv cosa ne pensasse».
Durò cinque anni, il tempo di mettere al mondo una bambina, svezzarla, provare a dare un ordine alle cose e a trovare un centro di gravità... D’inverno la temperatura scendeva a trenta gradi sotto lo zero, al sole d’estate Farö brillava come un relitto dell’età della pietra.
Nell’autobiografico Cambiare Liv Ullmann confesserà: «Vi ho vissuto un breve periodo della mia vita e ciò che ne ho riportato non sono gli scogli, gli alberi e la bellezza. Ho lasciato quest’isola senza colori portando la solitudine nel mio bagaglio e la certezza che qualcosa in me era cambiato per sempre».
La solitudine era invece proprio quello che la mente maschile di Ingmar cercava e voleva, perché «la solitudine scelta consapevolmente va bene». Mattinate passate in studio a scrivere sceneggiature, con il tempo appena per ingoiare in cucina bastoncini Findus, mentre Liv è alle prese con la pappa della piccola Linn; pomeriggi sulla spiaggia, come «contrappunto al teatro. Sulla spiaggia posso urlare, fare il diavolo a quattro. Al massimo vola via un gabbiano. Sul palcoscenico sarebbe una catastrofe». E poi, appartarsi dal mondo, «leggere i libri che non ho letto, meditare, purificare la mia anima».
Farö era il suo paesaggio, corrispondeva alle sue «più intime idee sulle forme, le proporzioni, i colori, gli orizzonti, i suoni, i silenzi, le luci e i riflessi». Era la sicurezza, la semplicità.
Al cinquantenne Ingmar che nella primavera del 1960 vi era arrivato per caso, in cerca di una location per il film Come in uno specchio che sostituisse le Orcadi, ritenute troppo dispendiose dalla produzione, l’isola offrì proprio quello che la sua mente aveva immaginato. Cercava un relitto e lo trovò identico a come l’aveva descritto sulla pagina, e così una spiaggia sassosa e un piccolo giardino con vecchi alberi di melo... Per chi riteneva che il cinema fosse «un’illusione progettata fin nei minimi dettagli» era la prova di quanto la realtà fosse illusoria e la vita soltanto una sceneggiatura. Era per tenere a freno il caos che aveva scelto la strada della scissione, ovvero osservarsi e recitare se stesso. Farö fu il suo palcoscenico, il suo teatro, il suo camerino, la buca del suggeritore.


Davanti alla casa, un’enorme siepe di lillà segna, per chi ne è consapevole, l’ingresso a quello che per Bergman fu anche «un mondo eterno e del quale non siamo che una minuscola particella, come gli animali e le piante. Qui la mia vita ha nuovamente delle radici. Quando arriva l’ora del lupo, quella delle ombre interiori, intorno si aggirano gli spettri». Riuscì a conviverci grazie a quello scoglio luminoso.

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