
La musica dovrebbe unire i popoli, non diventare terreno di scontro politico. Aiutiamo la pace con la pace e non con inutili azioni dimostrative. Irlanda, Olanda e Slovenia hanno annunciato che non prenderanno parte all’Eurovision Song Contest 2026 qualora Israele venga ammesso. Altri Paesi, come l’Islanda e la Spagna, stanno valutando la stessa scelta. L’intento dichiarato è quello di inviare un messaggio contro la guerra a Gaza e di mostrare solidarietà al popolo palestinese.
Ma ci si deve chiedere: davvero questo gesto potrà contribuire a fermare la guerra, se questo è l’intento di queste persone che non vogliono che Israele partecipi a questa manifestazione? Escludere un Paese da un concorso musicale può forse cambiare le decisioni politiche di un governo o la strategia militare di una nazione? La risposta, con tutta probabilità, è no.
L’Eurovision è nato con uno scopo preciso: unire i popoli attraverso la musica, superando i confini e le tensioni politiche. Trasformare questa manifestazione in uno strumento di esclusione significa snaturarne lo spirito. Non possiamo dimenticare che l’artista israeliana Yuval Raphael, protagonista nell’ultima edizione, ha commosso il pubblico con il suo talento e la sua storia personale. Impedirle di esibirsi significherebbe ridurre la sua esperienza a una questione politica, privandola della libertà di espressione artistica.
Il boicottaggio difficilmente potrà aiutare a spegnere il conflitto, e anzi potrebbe finire per alimentare nuove divisioni. L’obiettivo dovrebbe essere quello di stemperare gli animi e favorire spazi di dialogo, non di chiusura. La musica è un linguaggio universale che ha senso proprio se riesce a unire, non a dividere.
Va ribadito con chiarezza che questa guerra ha avuto origine da un attacco terroristico: quello di Hamas il 7 ottobre 2023. Un atto che ha colpito indiscriminatamente giovani, anziani e civili inermi, provocando shock e indignazione a livello internazionale. Hamas non è un partito politico, ma un’organizzazione terroristica, come riconosciuto ufficialmente dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, dall’Unione Europea, da Israele e da altri Paesi occidentali. È su questo punto che dovrebbe concentrarsi l’attenzione del dibattito, più che sulla cancellazione di un palco musicale.
La pace non si costruisce escludendo un Paese da un concorso canoro, ma incoraggiando il dialogo tra Israele e Palestina. Non tra Hamas e Israele, perché Hamas non è un interlocutore politico, ma un gruppo considerato terroristico da gran parte della comunità internazionale. Occorre invece creare occasioni di confronto tra i due popoli, alimentare la diplomazia e il rispetto reciproco.
Il boicottaggio di Israele all’Eurovision rischia di rivelarsi un gesto simbolico, ma poco efficace.
Non è la partecipazione di un’artista israeliana a costituire un problema, bensì l’attacco terroristico che ha acceso il conflitto. La libertà rimane il valore cardine: libertà di parola, di espressione, di partecipazione. Ed è proprio quella libertà che la musica dovrebbe difendere, diventando ponte e non barriera.