Controcultura

Il Mussolini di Scurati è un immane docu-film. Con effetto Wikipedia

Dalla fondazione dei Fasci di combattimento al delitto Matteotti: tanti sketch e poca letteratura

Il Mussolini di Scurati è un immane docu-film. Con effetto Wikipedia

Più che lo stile, poté la mole. Muscolare. Fascistissima. Più di ottocento pagine per raccontare il primo atto della vita politica del Duce, dalla fondazione dei Fasci di combattimento (23 marzo 1919, Milano; incipit alquanto moscio: «Affacciamo sulla piazza del Santo Sepolcro. Cento persone scarse, tutti uomini che non contano niente... Aspettano che io parli ma io non ho nulla da dire»), al 3 gennaio 1925, quando Mussolini risolve a suo favore la crisi seguita al delitto Matteotti, con il celebre discorso ai deputati («ebbene, signori, io dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto...», potete leggerlo in scioltezza su qualsiasi repertorio on line).

Ovviamente, per il getto delle prossime settimane - la durata biologica di un libro - non si parlerà d'altro che di M. Il figlio del secolo (nel maneggiare il titolo, il calco, lieto, è da N., il romanzo di Ernesto Ferrero, un po' più smilzo, dedicato a un duce un po' più celebrato, Napoleone, che predò lo Strega nel 2000: si sa, i dittatori tirano, letterariamente e letteralmente), l'ultima, sfiancante gincana romanzesca di Antonio Scurati, scrittore avvezzo ai premi (un Campiello per Il sopravvissuto, finalista allo Strega con Il padre infedele) e non indifferente al saggio (tra i noti: Guerra e La letteratura dell'inesperienza). Che Scurati abbia dichiarato di volere dare, con questo romanzo, il proprio personale contributo all'antifascismo, è del tutto ininfluente: sarebbe come dire che Moby Dick è stato scritto da Melville per focalizzare l'attenzione planetaria sul problema della cattiva alimentazione dei marinai a bordo di una baleniera. Scurati, piuttosto, con intelligenza, ha capito la cosa più semplice: il Ventennio - preciso: dalla fine della Grande guerra al Dux a testa sotto in piazzale Loreto - è una miniera romanzesca, altro che American Tabloid di James Ellroy, per dire.

Solo che. Scurati decide di ammainare il «romanzesco» in favore di una sorta di immane docu-film della vita di Mussolini. Il libro, costruito per sketch (ogni capitolo, piuttosto rapido, sgrana protagonista, luogo, data), sostenuto da una scrittura fredda, anti-empatica e anti-epica, sul crinale del piatto e del superficiale, ha, perciò, un pericolo genetico: la monotonia. A pagina 300 l'ardito lettore si lancia nella più spossante delle considerazioni (caspita, me ne mancano altre 500!), senza, in fondo, avere scoperto ciò che già non sappia se ha letto una manciata di saggi storici specifici o una biografia nutrita del Dux. Se il romanzo, di norma, nasce per mostrare il lato nascosto della realtà, il mostruoso dietro l'ordinario, le pudenda del mostro, qui Scurati, facendosene vanto («ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato»), racconta i fatti nella loro nuda ovvietà in blanda cornice narrativa.

Solo che. Il libro non è utile come bigino per l'esame di storia contemporanea (troppo lungo) né per invogliare il liceale a far pratica nella storia patria (meglio un documentario, una serie, un film). A parte alcune scene di rapace efficacia (esempio: nella morte del brigadiere Ugolini, linciato dalla folla nel giugno 1920, Mussolini «contrariamente al solito, sembra sinceramente scosso. Al contrario di ciò che nega esplicitamente, si ha l'impressione che... veda il cannibalismo all'orizzonte del futuro»), il libro (non romanzo) pecca (esplicitamente?) di «effetto Wikipedia». Così, quando appare Filippo Tommaso Marinetti scopriamo che «nel millenovecentonove ha fondato la prima avanguardia storica del Novecento italiano. Il suo manifesto per un movimento poetico futurista ha avuto risonanza europea, da Parigi a Mosca» (ma va!), mentre Mario Sironi è uno «che dipinge paesaggi urbani inanimati in cui la natura è assente», Umberto Boccioni è «il pittore delle visioni simultanee» e Gabriele d'Annunzio «ha speso il primo cinquantennio della propria vita nel tentativo di diventare il primo poeta d'Italia» (e «ci è riuscito»). Anche le chiavate del Duce con Margherita Sarfatti («il secolo vibra nei suoi seni, nel suo ventre, nelle sue cosce nude, spudorate. Lui, Benito Mussolini da Predappio, figlio di Alessandro, contro quelle cosce da signora ci sbatte come la mosca impazzita sbatte sul vetro del bicchiere capovolto») hanno il sapore stucchevole e didascalico dell'anagrafe cimiteriale.

Diciamo che un romanzo storico di 800 pagine, oggi, si sopporta solo se sei Lev Tolstoj o se tenti di scassare gli angusti limiti del genere (esempi ce ne sono, dopo Thomas Mann: l'Uwe Johnson di I giorni e gli anni, oppure, più recenti, Christoph Ransmayr e Jan Brokken), e Scurati - onore alla fatica - pare terrorizzato dall'adornare il Duce di aggettivi. Così Benito Mussolini, imbarbarito dalla fame di fama, fa la figura dell'assatanato sessuomane, un poco pataca, come si dice dalle parti sue, in Romagna, né glorioso né grottesco, il grado zero dell'uomo. Eppure, è la letteratura a fare la storia, il contrario è pappa stantia, stanchezza retorica: anche la presa di Fiume, presa per quella che è, in fondo («l'intera città appare in orgasmo. Il clima umano è da orgia a cielo aperto. La libidine sfrenata del seduttore la pervade. Soldati, marinai, donne, cittadini turbinano, variamente allacciati, sul ritmo di fanfare militari»), è una specie di brioso happy hour. Qualche bizzarro riferimento all'attualità (a un certo punto appare «Arcore, il buco del culo del mondo») e certe sentenze («nessuna morte eroica ha senso per gli italiani, sempre pronti a tirare fuori il coltello per scannarsi in liti d'osteria ma incapaci di muovere un dito per l'Italia») sintetizzate meglio da chi conosce il mestiere (nel recente Titanic. Il naufragio dell'ordine liberale, Vittorio Emanuele Parsi ricama sull'«ammirazione che troppo spesso molti italiani provano per il potere, pari solo al disprezzo che nutrono per l'autorità»), in questo libro che pretende di essere il prototipo del romanzo anti-sovranista non mi tolgono di torno una funerea considerazione. La storia soffoca l'atto letterario, il Duce incenerisce i suoi candidi o ruvidi cantori. Per raccontare Mussolini ci vorrebbe un Malaparte. Abbiamo Scurati.

Tocca tenercelo.

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