Alberto Cantù
da Salisburgo
A Salisburgo il Flauto magico di Riccardo Muti e Graham Vick è stato accolto, ieri laltro al Grosses Festspielhaus, dal «tutto esaurito», da grandi applausi, ma anche da una bordata di dissensi.
I battimani andavano in crescendo dalla compagnia di canto - cantanti-attori egregi, anzi strepitosi - a Muti: festeggiato più che mai anche perché di ritorno al Festival quale direttore dopera dopo dieci anni (La Traviata del 95).
Assensi misti a sonorissimi «buuu» riguardavano invece la regia di Vick e del suo collaboratore Paul Brown, artefice pur fantasioso di scene e costumi. Perché il pubblico salisburghese è fatto così. Vuole lallestimento «inventivo» (meglio se condito di nudi, qui peraltro assenti), se lo gode un mondo nel buio della sala e, quando si accendono le luci, si pente daver goduto e comincia a «buare».
Sui gusti e sulle perversioni non si discute. Di fatto, con questo Flauto, il regista inglese congegna uno spettacolo di grande humour e intelligenza anche nelluso dello spazio scenico che può limitarsi a un rettangolo da schermo televisivo o al «particolare di un quadro». Una fiaba mozartiana moderna e coloratissima, lieve e ironica che è anche una riflessione sugli esseri umani, sulla vita e sulla morte.
Tamino non è il principe orientale del passato remoto ma un single doggi. Uno studente in maglietta e scarpe da tennis che vive nella sua cameretta con limmancabile computer, la tavola da surf e un filo dove appendere la biancheria ad asciugare. Il serpente - un umoristico serpentello-giocattolo che alla fine ricompare in corteo con gli sposi - lo insegue ma in sogno e in sogno lo salvano le tre damigelle che fuoriescono come per incanto dalla tappezzeria. Anche la Regina della Notte appartiene allerotico onirico del ragazzo: appare, procace e biondissima, dal piumone adagiato sul letto.
Saranno il ritratto di Pamina, un poster, e Papageno «ad aprire» a Tamino le porte della vita (sono gli armadi della sua stanza): la vita vera che sulle prime lo spaventa, quella dove le scelte importanti hanno conseguenze serie. E Papageno non è «luccellatore», ma un giovane un po sballato però dal fondo sano, con le toppe sulle braghe ma il cuore in ordine.
Saranno Sarastro e compagni, non sacerdoti ma anziani di grande esperienza, vecchietti teneri e spesso malandati (deambulano in una sorta di ospizio) che, spente le giovanili intemperanze, gli insegneranno a crescere e a superare le prove grazie a cui un ragazzo può diventare adulto: e la vita, ci dicono, è anche una roulette russa.
Al suo terzo Flauto magico (nel 95 e nel 98 alla Scala) e in sintonia con un palcoscenico non convenzionale, Muti ricava un suono di trasfigurata bellezza. NellOuverture «sgrassa» gli accordi di Sarastro e gioca su sonorità preziose e duna leggerezza vorticosa, sul racconto serratissimo quanto duna pulizia con cui i Wiener Philarmoniker vanno a nozze.
La Marcia del secondo atto ha gli snodi fluenti e la trepida, sciolta tornitura neoclassica di una pagina di Gluck. Il canto è assecondato (e avvolto) dallo strumentale con affettuosa, sensibilissima partecipazione il cui sismografo traduce il più piccolo scarto emotivo. Una meraviglia di decantata eppure intensa misura classica. Un nuovo traguardo per Muti.
Sarastro, René Pape, ha una morbidezza cantabile, un colore, un gusto, una pienezza nelle note gravi oggi senza confronto. Tamino, Michael Schade, non è un tenore ma un personaggio capace di dolcezze e «pianissimo» mirabili, di accensioni forti e sinceramente accalorate. Pamina, Genia Kühmeier, con la sua voce intensa e ricca di armonici, limpida e ben calibrata, fa proprie le inflessioni dolenti, il pathos sofferto del personaggio.
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