Muti cura i bimbi delle bidonville con le note del «Va’ pensiero»

da Nairobi

L’Uhuru Park è l’anima verde di Nairobi, città cresciuta con fretta selvaggia attorno ai primi nuclei inglesi, in stile vittoriano. Traffico caotico, edifici fatiscenti a un palmo da residenze eleganti protette da servizi di sicurezza che non danno scampo. Ma Nairobi vuol dire anche microforeste, spazi aperti, giardini. Ed ecco l’Uhuru, il parco simbolo della libertà, dei diritti civili, della nuova costituzione keniota che qui venne ratificata nel 2010.
Proprio in questo luogo, ieri, Riccardo Muti ha diretto un concerto da primato: il suo primo concerto nell’Africa sub sahariana e in assoluto quello di maggior rilievo nell’Africa sotto l’equatore. Era il quindicesimo viaggio dell’Amicizia, ponte di fratellanza nel segno della musica che il Ravenna Festival rinnova ogni luglio, dal 1997, su spinta indefessa di Cristina Muti, presidente della manifestazione. Le Vie dell’Amicizia hanno raggiunto luoghi feriti da guerre, da conflitti non del tutto risolti. Quest’anno s’è andati dritto al cuore dell’Africa con un concerto gratuito per gli abitanti di Nairobi, e si sono pure visti ragazzi delle baraccopoli. È stata una festa musicale con gli orchestrali della Cherubini, della Giovanile italiana e del Kenya, i coristi del Municipale di Piacenza e la Stagione Armonica tutti stretti nel palco centrale. Per il Va’ pensiero a chiusura, lo spazio non basta più, e a lato si aprono due ali che accolgono i cori locali dei bambini di Little Prince e dell’Urafiki Carovana Schools. Il tutto, per un esercito di 543 artisti.
L’appuntamento apre con canti e danze locali, d’una fisicità travolgente. La platea è al completo. In prima fila – fra gli altri – siede il vicepresidente del Kenya, l’ambasciatrice italiana a Nairobi, autorità varie, pure coloratissime donne Masai, quindi kenioti ed europei. Dalla spianata sale un pendio, e qui, sul prato, c’è chi attende da più d’un’ora. Ma il tempo africano è di quelli che piace a Proust, sfugge all’inesorabilità delle lancette. E parecchi arrivano a festa iniziata, attratti dalla musica: «Siamo in Africa, non amiamo la puntualità», ti spiegano. E poi, per la quasi totalità degli spettatori (oltre 5mila), questo è il primo concerto di musica classica cui assistono. E la cosa piace, applaudono, fischiano. La reazione è genuina.
Si inizia con Bellini, si passa a Verdi. Poi c’è un’esplosione di ritmi e colori. Arrivano, con la loro carica di energia, acrobati che piroettano, volteggiano, elaborano coreografie da Cirque du Soleil sul tamburellare di una formazione di percussioni. Sono i giovani di Nairobi strappati alla strada e che nelle missioni italiane, tra cui quella capitanata da padre Kizito, hanno trovato una rinascita. Lui ne salva almeno 200 all’anno, e saranno pure una goccia nel mare degli 80mila giovani indigenti di Nairobi, come dice Kizito, ma quando li vedi in azione e pensi da cosa sono stati riscattati, quella goccia diventa un fiume.
«Questo nostro concerto è solo un veicolo», spiega Muti. In realtà offre visibilità a un problema che sta nelle retrovie keniote delle vacanze dorate a Malindi e safari da brivido. «La musica unisce», dice a fine concerto ai suoi ragazzi. Perché lui crede nel mondo multietnico «dove ognuno porta la propria cultura».

Qui individua la terza via, quella che media «l’elementarità imbarazzante di tante canzonette e l’incomprensibilità di tanta musica contemporanea colta. Dalla fusione di spunti sudamericani, africani, indiani ed europei può nascere un nuovo futuro». È un Muti senza frontiere che parla.

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