Muti esalta i virtuosismi del barocco napoletano

Accade una sera d’estate, a Ravenna, sotto il verde abbagliante del mosaico absidale di Sant’Apollinare in Classe, di scoprire un oratorio barocco e il suo compositore. Diamone merito all’ottima programmazione del Ravenna Festival.
E ora entriamo nel merito e parliamo della Betulia liberata di Niccolò Jommelli (1743), senza dubbio, insieme all’azione sacra di Mozart, la più importante fra le trenta intonazioni che conobbe l’illustre testo di Pietro Metastasio. Jommelli (1714-74), nativo, come Domenico Cimarosa, dell’antica città normanno-campana di Aversa, divenne celebre operista alla corte del duca Carlo Eugenio del Württemberg, mecenate dalle mani bucate (che tempi!) che gli mise a disposizione una delle migliori orchestre del tempo. Ma già nel decennio precedente, quando lavorava a Venezia (periodo a cui risale la Betulia), Jommelli dimostra che nel trattamento dell’orchestra e nell’invenzione di simboli e figure strumentali era compositore di punta. A contatto con effetti di crescendo e contrasti dinamici dell’orchestra, la voce umana viene trattata con analogo splendore. A tutti e quattro i solisti dell’oratorio non sono risparmiate agilità e figurazioni nervose, salti di registro e tessiture enormi. Incastonate fra le numerose arie brillanti, risaltano maggiormente i momenti teneri, come la supplica di Ozìa e del coro «Pietà, se irato sei» che si eleva - ed è tutto dire - sull’analogo momento mozartiano, perché Jommelli è nato dove il calore del sole riscaldala terra e chi vi nasce. Superba è la riuscita (alla fine della seconda parte) dell’aria del basso («Te solo adoro»), perché l’autore fa coincidere la conversione alla fede ebraica di Achior con un contrappunto fugato, severo e intenso, che ci riporta alla più nobile musica sacra della scuola napoletana. Del pari importante è il lungo recitativo - aurato dalla magia degli archi con sordina - in cui Giuditta narra la cruenta decollazione del nemico Oloferne.
E per venire ai giorni nostri ritorna utile l’antico adagio: non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Figuriamoci il sole ardente del Medio-Oriente. Non sappiamo se ringraziare di più il maestro Muti per le sue superbe doti di esecutore o per il quantomeno meritorio impegno nel rivelarci i tesori celati in quell’isola del tesoro che si chiama Scuola Napoletana. Comunque, grazie Maestro.

Nelle sue mani gli interpreti - Laura Polverelli, Antonio Giovannini, Dmitri Korchak, Vito Priante, i giovani dell'Orchestra Cherubini e il coro Philharmonia di Vienna - meritano tutti il nostro plauso per l’impegno e il risultato conseguito, rispettando uno stile colmo di difficoltà tecniche e musicali.
Per quanto ci riguarda una splendida esperienza che ci auguriamo possa ripetersi in queste sedi, dove ormai è dato fare incontri di alta godibilità musicale.

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