Né odio né guerre sante affonderanno la speranza

Caro Granzotto, mi permetto di sfogare con lei, persona di cui ho tanta stima per il suo spessore umano e culturale, una considerazione che sembrerebbe letteraria e che letteraria non è. Durante le vacanze natalizie, con lo scopo di distrarmi dalla malinconia delle feste propria della mia età, ho letto quattro libri di narrativa e ho scoperto, con una certa sorpresa, che erano tutte e quattro autobiografie, legate tra l’altro da una ispirazione pressappoco comune. Si distingue, per il suo valore letterario e poetico, «Patrimonio» autobiografia di Philip Roth; ma gli altri tre («Il cacciatore di aquiloni» di Khaled Hosseini, «Memorie di un soldato bambino» di Ismael Beah e «Infiltrato» di Omar Nasiri) rivelano l’aspirazione a prendere le distanze dal mondo dannato da cui tuttavia provengono e ad affrontare il sofferto recupero della propria identità personale e della perduta salvezza. Ho interpretato queste opere come uno spiraglio aperto alla speranza in un momento disumano qual è l’attuale; ho solo il timore che si tratti di una fugace illusione. Mi auguro che questa mia invadenza non sia giudicata fuori tema e fuori luogo; la sua rubrica del resto ospita con generosa comprensione anche esami di coscienza.



Penso che lei concordi con me, caro Vasile: non passa giorno che al termine del rito mattutino della lettura dei giornali la speranza, l’attesa fiduciosa di un futuro meno disumano, nel senso proprio di mancanza di umanità, non subisca un colpo. Ci sono momenti e circostanze in cui lo sperare ci sembra addirittura un atteggiamento irrazionale, sterile e dunque stupido. Il disagio si inasprisce quando poi si è costretti a prender atto di una generale, rassegnata inanità infiochettata nei nastri di seta del «dialogo». Il dialogo. Come racconta Ismael Beah, in Sierra Leone un Fronte che ardisce chiamarsi rivoluzionario recluta a forza i bambini, li droga e li incarica di massacrare indiscriminatamente. Massacrare, non semplicemente uccidere. Che dialogo può intercorrere con quelle bestie? E quell’altro fiocco messo all’inanità, la tolleranza? Accogliere idee e atteggiamenti diversi dai propri, mostrare comprensione e anche indulgenza è una virtù civile, ma va necessariamente spinta fino al punto di tollerare - e dunque accettare - che accadano cose come quelle raccontate in Memorie di un soldato bambino?
Talvolta posso anche disperare, caro Vasile, ma non riesco a rassegnarmi alla rassegnazione e più che mai a quella che ipocritamente viene smerciata come impegno sociale. Specie se da un mondo disumano, da un mondo dannato, giungono voci - Hosseini, Beah, Nasiri - che sono appelli a quanti hanno la cultura, la civiltà e la forza - proprio così, la forza - necessarie per far ritrovare quella che lei chiama, con parole assai appropriate, la perduta salvezza. «Non è vero che si può seppellire il passato», si legge in Il cacciatore di aquiloni, «Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente».

Ed è nella certezza che nessuna ideologia, nessuna credenza, nessun terrorismo, nessuna rivoluzione, nessuna guerra santa o follia tribale potrà mai spuntarli, quegli artigli, con cui si alimenta la nostra speranza, caro Vasile.

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