La pandemia nel campo rom: "Qui lo curiamo con le erbe"

Viaggio in un campo rom di Giugliano in Campania, nel Napoletano, dove quasi 500 persone provano a tenere lontano il nuovo coronvirus con le preghiere e affidandosi agli infusi delle donna più anziana del gruppo

La pandemia nel campo rom: "Qui lo curiamo con le erbe"

Pregano e si affidano agli infusi miracolosi della “nonna” per tenere lontano il virus. Non possono fare altro ai margini di quella periferia dove sono relegati. Il distanziamento sociale, la pulizia degli ambienti e l’igiene personale, soprattutto il lavarsi le mani, sono alcune delle regole principali da seguire per prevenire il contagio da Covid-19. Ma in luoghi dove le condizioni igienico-sanitarie sono precarie, dove mancano i servizi minimi essenziali e le abitazioni sono baracche spesso sovraffollate, queste raccomandazioni diventano difficili da seguire. A Giugliano, nel campo rom allestito abusivamente in un’area privata abbandonata, 80 famiglie hanno appreso dalla televisione del diffondersi dell’epidemia che ha finito per travolgere il mondo intero. È così che oltre 400 persone - di cui più della metà sono minori - sono venute a conoscenza dell’emergenza determinata dal nuovo coronavirus e delle norme da rispettare per impedire la diffusione del contagio. “Qui non è venuto nessuno a informarci, a dirci come ci dovevamo comportare. Noi lo abbiamo saputo dalla televisione. Il Comune ci ha abbandonato”, dicono nell’insediamento. E pensare che riescono ad accendere il piccolo schermo solo perché si sono allacciati illegalmente alla rete elettrica. Fino a qualche mese fa nel campo non avevano nemmeno l’acqua corrente. “Poi abbiamo risolto noi – raccontano - Abbiamo comprato dei tubi, li abbiamo montati, e ora abbiamo delle fontane”. Grazie a quelle fontane oggi hanno la possibilità di lavarsi le mani. Con del sapone, quando riescono a comprarlo.

“Se arriva qua, il virus fa una strage”. Ne è consapevole Giuliano, che vive in un camper con la moglie. Per proteggersi si copre bocca e naso con uno scaldacollo. “La paura c’è”, dice. “C’è la paura che uno di noi possa prendere il virus e che possa contagiare tutti. Se lo prende uno di noi, finisce che lo prende tutto il campo, perché siamo troppi. A volte ci chiudiamo dentro, non usciamo spesso. Preghiamo anche molto, preghiamo Dio che questo male resti lontano da noi, da tutto il mondo”. “Le mani io le lavo. Con sapone e amuchina”, dice una donna. Ci mostra la sua casa di legno e lamiere. “Mio marito ha costruito la baracca e io l’ho arredata”, dice con fierezza. Dentro, i colori esplodono nell’ordine. Fuori, il vento soffia sul terreno e opacizza una quotidianità che non sembra essere cambiata molto con l’avvento della pandemia, se non per il venir meno del lavoro in nero che permetteva di portare il pane a tavola.

I rapporti sociali nel campo non sono cambiati. “Noi sempre così, baci e abbracci”, ammettono delle donne. “Siamo sempre tutti insieme. Con i nipotini, con i figli”, conferma una nonna di 52 anni. L’unico distanziamento che mettono in pratica è da quel mondo esterno da cui già erano emarginati. Nel campo baracche e roulotte si susseguono. Tra gli spazi che lasciano liberi sul terreno appiattito dai passi, i bambini (tanti) si muovono come se nulla fosse cambiato. Qualcuno corre a piedi scalzi. “Un metro di distanza”, urlano. Lo ripetono come un mantra. Per loro è un gioco. Si divertono a ricordarselo mentre trotterellano in un villaggio circondato da cumuli di ferro vecchio e rifiuti. Molti piccoli non sanno nemmeno cosa significhi quel “metro di distanza”. Non sanno cosa sta succedendo fuori dal contesto in cui vivono. Per loro la vita è cambiata poco con l’esplodere della pandemia da Coronavirus: le scuole sono chiuse, ma loro già non ci stavano andando; le relazioni sociali si limitano a quelle interne alla circonferenza del campo in cui vivono, come prima del diffondersi del Covid-19. “Io vorrei andarci a scuola, mi piace”, confida Manuela, 11 anni. Lei faceva parte di quei bambini che riuscivano ad entrare in una classe grazie all’impegno di fratel Raffaele, religioso che non fa mancare il suo supporto alla comunità rom locale. Un autobus andava a prendere i piccoli e li portava a scuola, fino a quando non sono stati sgomberati dall’area dove vivevano fino a maggio scorso, distante pochi chilometri da quella dove poi si sono stabiliti.

I più piccoli sembrano non avvertire il peso dell’emergenza che ha stravolto tutto il mondo, se non nelle preoccupazioni che riescono a cogliere dagli adulti. “Qui nessuno è stato contagiato”, afferma convinto Nurija. “Stiamo a casa. Ci muoviamo soltanto per andare a prendere prodotti alimentare. Siamo preoccupati pure noi per questo coronavirus”, riferisce. Attorniato da 12 figli e 22 nipoti, è uno dei capifamiglia del gruppo, il portavoce. Nurija è uno dei pochi a indossare una mascherina. In mancanza, la moglie si è rimboccata le maniche e le ha realizzate con le sue mani per la famiglia. La piccola Camilla arriva a mostrarne una. Sono in molti a cercarne. “Avete portato mascherine?”, “Conoscete qualcuno che le realizza a mano?”. Nel campo chiedono anche altro. Il minimo per la sopravvivenza. “Io avrei bisogno di una maglietta”, dice Alex. “Avete vestiti per bambini?”, domanda una donna di 52 anni che con il marito dice di vendere in un mercatino delle pulci in un comune poco distante. Anche loro, con il blocco degli spostamenti e di tutte le attività non essenziali, hanno smesso di lavorare. “Abbiamo la partita Iva”, affermano. Cercano informazioni sul bonus da 600 euro messo a disposizione dal Governo per far fronte all’emergenza economica causata dalla pandemia. Giuliano dice di averla presentata la domanda, pur non possedendo i requisiti: “Lavoro in nero, mi arrangio a svuotare garage, magazzini. Adesso stiamo fermi, abbiamo paura di uscire perché c’è il divieto, ci sono le multe, ci sono le denunce. Posso uscire solo per fare un po’ di spesa. Quel lavoro mi permetteva di vivere, noi andiamo avanti con quel lavoro”.

“Non lavoriamo da quasi due mesi”, è il problema che sollevano diversi uomini del campo. Molti si arrangiano a raccogliere il ferro e a rivenderlo, altri svuotano cantine e rivendono il recuperabile nei mercatini delle pulci. Secondo un censimento eseguito internamente, sono 81 le famiglie che vivono nell’insediamento. Circa 300 sono i minori, su 465 occupanti totali. Dati che meno di un mese fa sono stati trasferiti alle associazioni impegnate a favore degli abitanti della baraccopoli. Chi può, oggi riesce a tirare avanti con i risparmi accumulati. “Poi ci aiutiamo tra di noi”, racconta Nurija, mentre alle sue spalle una donna porta un cesto pieno di alimenti in una baracca. Un importante supporto lo forniscono don Francesco Riccio, parroco della chiesa San Pio X di Giugliano, e fratel Raffaele. Il loro impegno è riconosciuto da tutti nel campo. In questo periodo pare che siano gli unici a mettere piede nell’insediamento, per offrire il loro sostegno e portare pacchi alimentari.

La fame sembra preoccupare più del virus in quell’area occupata situata tra le campagne a ridosso della Circumvallazione esterna. Il centro cittadino è raggiungibile solo con mezzi privati. “Sì, abbiamo paura. Ma qui non succede niente”, dice senza esitare Nurija. E molti nel campo sembrano convinti di questa presunta immunità dal virus. “Abbiamo la nostra nonnina che ci prepara le sue medicine con le erbe. Lei sa come si prepara il tè con le erbe, le foglie, per non far arrivare certe malattie. Lei è il nostro medico. Poi, vedi i bambini, stanno bene. Noi ogni sera gli prepariamo un tè con quest’erba che raccogliamo nelle campagne qui vicino”. E mostra il raccolto, posizionato su un vassoio di argento in attesa dell’immersione in acqua bollente con delle fette di limone. “Pure noi lo beviamo. Nella giornata – racconta Nurija - si dà ai bimbi. Non avranno né bronchite, né polmonite, né tosse. Vedi come sta ogni bambino? Gioca come se non ci fosse il virus”. La nonnina è la donna più anziana del gruppo. Ha superato i 90 anni e tra una faccenda e l’altra si ferma a fumare un sigaro nel suo camper. Da circa 30 anni in Italia, è immigrata negli anni Novanta dalla Bosnia, come gli altri più anziani, per fuggire dalla guerra. “Vedi lei come sta bene. Non ci prende il virus a noi zingari”, sostengono nel campo.

Ma il virus non fa differenze, trova vita dove gli viene aperta la strada per attecchire. E per il momento il distanziamento sociale e l’igiene personale, rappresentano ancora l’unico rimedio per fermarne la diffusione.

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