Roma - Ufficialmente è una «brutta influenza» ma ufficiosamente c’è dell’altro dietro al forfait di Fini al primo raduno terzopolista a Todi. Dietro le quinte dello scontro istituzionale che coinvolge governo, presidenza della Camera e del Senato, c’è un complicato lavorìo diplomatico che ha il suo epicentro nel Quirinale. Il presidente della Repubblica ha trasmesso la sua preoccupazione ai massimi attori della crisi in atto, e il pressing per superare il cul de sac istituzionale è diretto tanto verso Palazzo Chigi quanto verso Fini. L’attivismo politico del leader Fli è senza dubbio uno dei motori del conflitto da cui, secondo il Colle, bisogna uscire alla svelta perché «così non si può andare avanti». Perciò la partecipazione di Fini al convegno del Terzo polo, nella doppia e ambigua veste di terza carica dello Stato e leader della coalizione che lavora al rovesciamento del governo, avrebbe avuto l’esito più nefasto, una recrudescenza del conflitto tra poteri.
L’indiscrezione che circola, dunque, è che sia stata proprio una sollecitazione del Colle a far desistere Fini dal viaggio verso Todi (le sue veci le ha fatte Bocchino). Certo è che nei giorni scorso Napolitano si è fatto sentire con gli ambasciatori del Cavaliere, con Umberto Bossi (già da qualche tempo convinto «napoletanista») e con gli uomini del Terzo polo. Il messaggio è lo stesso: il Paese non può permettersi uno scontro costante e feroce tra istituzioni. Il freno a mano lo hanno messo un po’ tutti. Bossi ha subito virato sulla richiesta di dimissioni di Fini («Su questa storia di Montecarlo bisognerebbe fare meno casino»), Berlusconi ha edulcorato il videomessaggio (che conteneva, nella stesura originaria, riferimenti abbastanza espliciti al sabotaggio finiano), il Pdl ha ritirato l’idea di scendere in piazza il 13 (La Russa: «La presenza capillare sul territorio è una cosa più importante che non rinchiudersi per due o tre ore in un teatro o in una piazza»), l’allentamento della propaganda di Fini con l’assenza programmata (una febbre quanto mai opportuna...) dal consiglio di guerra terzopolista.
In un retroscena il Foglio scrive di una convocazione dei due presidenti delle Camere al Quirinale per martedì, come primo atto di una exit strategy presidenziale dalla crisi. La notizia viene poi smentita da fonti quirinalizie ma il succo politico resta intatto. Con uno scatto del tutto imprevedibile solo qualche settimane fa, ora sembra essere il Colle ad accelerare verso il voto, con la maggioranza, soprattutto nella sponda Pdl, più cauta sullo scioglimento delle Camere (prerogativa che la Costituzione assegna per l’appunto al capo dello Stato). Non che Napolitano, da sempre auspice di stabilità governativa, sia diventato un supporter del voto anticipato. L’interruzione della legislatura con un voto anticipato resta un «rischio» per il presidente della Repubblica, ma anche, se il conflitto - come sembra - non si potrà risolvere, l’unico sbocco possibile.
L’altra incognita, dopo il Quirinale, da cui dipendono molte variabili per i giorni a venire è la Lega di Bossi. È il partito che più di tutti ha in mano il pallino, e il segretario federale lo sta giostrando con molta astuzia, attento a muoversi da alleato fedele del Cavaliere ma anche a giocare una partita propria. La Lega ha fissato una data, il 3 febbraio, giorno del voto sul federalismo municipale, per tirare le fila di tanti gomitoli.
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