Con tutto il parlare che si è fatto di Caravaggio, con i fluviali articoli sui giornali, non solo italiani, sul nuovo dipinto scoperto a Madrid, l'Ecce Homo che ha riacceso l'attenzione degli studiosi sulla questione delle attribuzioni, ovvero di cosa sia di Caravaggio e cosa sia di altri, anche degni, artisti, sembra incredibile che si aprano mostre con opere non di Caravaggio, di problematica attribuzione, ma riferite a lui come se fossero documentate.
È il caso del Castello di Rivoli, che ha appena inaugurato «Sex» della tormentata artista internazionale Anne Imhof (vincitrice del Leone d'Oro alla Biennale di Venezia nel 2017) che utilizza il Narciso di Caravaggio per una sua fondamentale riflessione «sulla identità e sulla immagine di un sé oggi sempre più connotato da un desiderio esibizionistico della propria immagine attraverso la tecnologia digitale», come scrive Marina Paglieri, seria giornalista della Repubblica di Torino, che ci informa anche che il Narciso fu realizzato tra 1579 e 1599. Dunque in vent'anni, iniziato quando Caravaggio aveva 8 anni. Il prestito è stato concesso dalla Galleria Barberini di Roma per consentire alla giovane artista tedesca, nata nel 1978, di mettersi in relazione con l'opera di Caravaggio: per «una performance prodotta dalle Gallerie d'arte antica in collaborazione con il Castello di Rivoli, che si terrà il 25 e 26 settembre all'interno di questo museo». Non sembrando abbastanza pretenzioso l'accostamento a Torino, lo si ripeterà a Roma, a Palazzo Barberini, l'1 ottobre. Nonostante il Narciso sia esposto in un museo di arte contemporanea per essere ancella dell'artista tedesca, la direttrice del museo di Rivoli, Carolyn Christov-Bakargiev, non manca di rassicurarci che «il Narciso di Caravaggio è un'opera fondamentale non solo per il motivo che l'artista vi ha rappresentato il dolore e la realtà, ma anche perché il giovane che si vede riflesso nello specchio rappresenta l'altra faccia della nostra epoca contemporanea. Oggi, nell'era tecnologica, quella dei selfie, la macchina fotografica si è girata verso noi stessi. La nostra non è una era altruistica, tutti osservano gli altri che osservano se stessi, vivendo in una bolla. È una catena che bisogna interrompere».
A parte l'esortazione conclusiva, che si manifesta come un processo ai tempi, e a parte la più forte mortificazione di mettere Caravaggio al servizio della infantile e strumentale riflessione di un'artista del nostro tempo, c'è un fatto ancora più grave. E riguarda l'inganno o il tradimento dei visitatori perché il Narciso non è di Caravaggio. Mi dispiace contraddire la brava direttrice e la brava giornalista, ma gli studi, da molti anni, hanno respinto quella che fu una geniale e seducente attribuzione di Roberto Longhi. Lo ricordai, con grande clamore, in una trasmissione di Bruno Vespa dove il dipinto fu deportato, sempre come Caravaggio, con comprensibile emozione del conduttore e del ministro Bondi, ospite per l'eccezionale occasione. L'opera è sempre stata molto controversa e revocata in dubbio da studiosi insigni come Dora Panofsky, Friedlaender, Arslan, Moir, Bissel, che hanno indicato il nome di Orazio Gentileschi, fino a Gianni Papi che, nel 1986, ha proposto la convincente attribuzione allo Spadarino, notevole pittore di minor nome, e quindi poco attraente per un'operazione di immagine. Certo è che l'opera non è documentata e non è citata da fonti coeve. Il primo a proporre il nome di Spadarino fu Cesare Brandi, seguito da Papi, Ferdinando Bologna, Mina Gregori (i maggiori studiosi caravaggeschi) e, da ultimo, Tomaso Montanari che spesso ha scritto sulla Repubblica.
A ben vedere, la staticità dell'opera è estranea alla pittura d'azione, anche in giovinezza, manifestata da Caravaggio, soprattutto al tempo della Cappella Contarelli, in San Luigi dei Francesi a Roma (accettando una datazione al 1599). Oltre ai confronti istituiti da Papi con opere certe di Spadarino, come il Convito degli dei degli Uffizi e il Battesimo di Costantino di Colle Val D'Elsa, oltre a Santa Valeria e San Marziale nella Basilica di San Pietro a Roma, è interessante l'indicazione del celebre restauratore Thomas M. Schneider il quale, studiando la generale stesura del colore nel dipinto, aveva individuato un modus operandi a suo avviso diverso da quello solito del Merisi. Aveva dunque concluso: «Per realizzare una costruzione come questa l'intervento del Caravaggio si manifesterebbe con più veemenza e, nonostante i suoi caratteristici spostamenti e cambiamenti, con più chiarezza».
L'altissimo margine di dubbio avrebbe dovuto indurre il museo di Rivoli a maggiore prudenza, evitando la retorica della scorta armata e dichiarazioni come: «L'orario di arrivo è top secret per motivi di sicurezza». Fra tanti dubbi, il destino non caravaggesco del Narciso è segnato, pur rimanendo un dipinto fascinoso.
Non è il solo caso di prepotenza dell'arte contemporanea su testimonianze e monumenti della storia. Un altro tedesco, Georg Baselitz, molto ammirato in Italia, ha deciso di proporre a Venezia, nei Magazzini del sale, alle Zattere, dove si trovava lo studio di Emilio Vedova, in spazi neutri e perfetti per l'arte contemporanea, la mostra «Vedova accendi la luce». Sono 17 nuove opere di Baselitz, piuttosto ripetitive, tutte realizzate nel 2020, tutte di grandi dimensioni (300x312 cm.): 10 dedicate alla moglie Elke, 7 alla maniera di Vedova. Che giochi, dialoghi o imiti il pittore veneziano, come suggerisce Alfredo Bianchini, non è in discussione. Non è rassicurante, invece, che, non bastando l'esposizione ai Magazzini del sale, l'obiettivo di Baselitz si alzi, misurandosi non con il congeniale Vedova, ma con l'irraggiungibile Tiziano. Così, nell'indifferenza del ministero e della Soprintendenza, o forse con la loro complicità, la Fondazione Venetian Heritage con il noto mercante Gagosian ha sequestrato Palazzo Grimani per ospitare una serie di dipinti denominati «Archinto», a indicare l'omaggio di Baselitz al ritratto dell'arcivescovo Filippo Archinto, dipinto tardo e conturbante di Tiziano, conservato al Philadelphia Museum of Art. Il ritratto, carico di fascino e di mistero, si avvantaggia della intuizione di Tiziano di coprire più della metà del volto del cardinale con una tenda che lo nasconde e lo fa vedere. Ciò che inquieta è la minaccia che, nelle 12 cornici di stucco del Portego, prese le misure, entrino altrettante tele di Baselitz al posto dei ritratti della famiglia Grimani, e cinque deformi sculture, fra cui la ingombrante Zero Mobil, con un minaccioso deposito in comodato a lungo termine. È tutto meno che un «ritorno agli antichi fasti dei Grimani», come ci vorrebbe convincere Toto Bergamo Rossi, giovane pieno di entusiasmo. Minore sarà l'entusiasmo per quanti, dal tempo in cui io lo aprii al pubblico, vengono per veder questo Palazzo straordinario, ricco di capolavori dell'antichità, parzialmente restituiti dal Museo Archeologico di Venezia: la celebre raccolta di Giovanni Grimani.
Il rigore del restauro e la pertinenza delle collezioni non dovrebbero consentire di trasformare un museo storico in spazio trionfale ed edonistico per un pittore contemporaneo, nascondendosi dietro al nome di Tiziano.
Lasciamo che la mostra abbia il suo corso, e poi rimandiamo le 12 tele (e le sculture) a Gagosian. Sarà un bene per tutti. Non facciamo diventare Palazzo Grimani un'arena dei mercanti, sfigurandolo con opere più adatte a un magazzino.
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