Cultura e Spettacoli

NARRATORI ITALIANI EMANUELE TREVI Freschi e dolci ricordi in un torrido agosto

Anche a Roma l’estate del 2003 fu asfissiante. «Il peggior clima dal 1765», ricorda nel suo libro Emanuele Trevi citando Il Messaggero. Le avvisaglie di quanto sarebbe accaduto si ebbero già durante il mese di maggio, ma fu in luglio e agosto che si raggiunse l’apice dell’intollerabilità.
Eppure, a volte, proprio il caldo di certi luoghi regala stati di frenetica, innaturale, inebriante produttività: fu in una Roma senza un filo d’aria che Roberto Longhi, nel 1914, scrisse in poche settimane la memorabile Breve ma veridica storia della pittura italiana. In altri casi, invece, la calura induce in noi un effetto strano, dilatante: accade come se lo spazio si allargasse a dismisura fino a diventare un’unica, totalizzante dimensione che invade il tempo, lo manda sullo sfondo, lo annichilisce. In quei momenti, il corpo vive in una sorta di presente assoluto, attraversato da intontimenti, nausee, torpori, cattivi funzionamenti della memoria. E sono le rare zone dove l’afa si interrompe a spezzare questa onniavvolgente spazialità, consentendo al tempo di riemergere, inatteso e improvviso.
E dunque chi, nell’estate del 2003, si difendeva raggiungendo salvifici luoghi umbratili (chiese, o i sotterranei urbani da cui Roma è attraversata), immediatamente avvertiva come lì il passato individuale e collettivo iniziava, davvero, a riaffiorare. Così, un diario attendibile di quell’estate (tale è Senza verso. Un’estate a Roma, di Trevi - Laterza, pagg. 122, euro 9) avrà come filo conduttore non tanto le stordenti passeggiate, i brevi percorsi a piedi bensì quei lievissimi, impercettibili transiti da una dimensione spaziale onnicomprensiva, da una luce accecante verso zone d’ombra ricche di tracce, segnali, ricordi intermittenti che rinviano a altri ricordi acquistando stabilità, consistenza. Fino a diventare memoria piena, vissuti da riannodare, riassociare.
Ma, sebbene involontaria, ogni memoria è selettiva. E dunque, nel ripercorrere da flaneur del tempo l’irripetibile estate del 2003, Trevi affida alle stesse divagazioni della mente il compito di sfrondare il caduco per concentrarsi su ciò che ha valore. Forse, tra tutto quanto si ricorda, sono i morti a possedere uno statuto privilegiato: affiorano nella mente, tornano, non svaniscono. Così avviene per la figura di Pietro Tripodo, poeta purissimo, raffinato traduttore di George (e ancora troppo poco conosciuto dal grande pubblico). La sua immagine, via via che le pagine di Trevi scorrono, emerge e viene gradualmente acquisendo un ruolo centrale. Quasi che la memoria, anche la più esposta a climi e ambienti, rispondesse sempre e comunque a un principio di pietas che la trascende e la porta a essere, da luogo in cui antiche sensazioni si rimettono insieme, custodia di quanto non dovrà disperdersi.
Per questo Senza verso è il diario d’una stagione ma, ancora di più, è la narrazione d’un lutto, di una assenza. Sembra, allora, che Trevi abbia ripreso quel sottilissimo legame associativo che, a volte, riconnette le nostre estati con il ricordo di chi non c’è più, un topos della memoria il cui esito letterario più alto è stato, forse, quella grande poesia di Vittorio Sereni intitolata Verano e Solstizio («L’estate di Roma ci stava davanti/ con la più svaporante/ la sua più mortale calcinazione»...). Dove Roma, e la sua calura e i suoi morti diventano, per un attimo, le parti d’uno straordinario gioco di rimandi che li ricongiunge.

Gioco che Trevi, nel suo libro, sembra incaricarsi di riavviare, decenni dopo.

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