Di Libera i miei nemici, di Rocco Carbone (Mondadori, pagg. 232, euro 16,50) bisognerebbe discutere aprendo subito l’ultima pagina: quella in cui Lorenzo, vent’anni dopo che la sua ragazza è stata uccisa per sbaglio durante un’azione terroristica, appoggia la mano sul ritratto fotografico di lei «come se dovesse difenderlo da qualcosa o da qualcuno». Un gesto protettivo così struggente da essere quasi insostenibile, e che condensa bene un’opera impegnata a riaffermare sia la non elaborabilità di certi lutti, sia la linea che separa la civiltà dalla barbarie.
Libera i miei nemici è un romanzo sul terrorismo che guarda agli anni di piombo non da una prospettiva distanziante, come da tempo si chiede di fare da più parti per sciogliere o resecare i tanti, troppi nodi rimasti, ma intima: la prospettiva di chi ha subìto un danno, la scomparsa della persona amata, ed ora nasconde in sé la ferita mortale che lo condanna ad una vita postuma. Questa «morale» della favola, tuttavia, è l’esito e il colpo di teatro di una trama di segno opposto: cristiana, pietosa, aperta al perdono.
Lorenzo ha mancato la carriera universitaria per ragioni fortuite, e da anni lavora nella redazione di un grande dizionario enciclopedico. Vive solo in un appartamento tanto ordinato da sembrare disabitato. Non ha una donna, non ha amici e nemmeno ne vorrebbe. Unico parente, un fratello che desidererebbe andare a trovare più spesso ma che vede raramente, e che reagisce con brutale insofferenza alle insistenze con le quali l’uomo tenta di mantenere viva la relazione. Carbone è bravissimo a trasmettere l’acuto «patetico» che nasce quando un dono è rifiutato da chi vi vede non il gesto gratuito, ma la sfida, la gatta da pelare; ed altrettanto nel disegnare l’esistenza deprivata di ebbrezza, quasi da sagrestano, di Lorenzo, la sua lontananza dalle passioni, l’indifferenza vegetale agli allettamenti della gioia e dell’entusiasmo.
Ma questa insularità dell’anima, che intuiamo essere l’effetto di un trauma, è violata due volte la settimana, quando il nostro protagonista supera i cancelli di un carcere femminile per tenervi un corso di grammatica e letteratura. Le «studentesse» (così si rivolge loro, per attenuarne la condizione di detenute) gli vogliono bene, anche se forse si servono di quelle lezioni soprattutto per uscire per qualche quarto d’ora in più dalle loro celle. Le pagine dedicate alla vita carceraria, oltre ad essere tra le più delicate e commoventi degli ultimi anni, liberano altresì dal pregiudizio che vede nel carcere un castigo «astratto», quasi il modo attraverso cui la società si vieta di sporcarsi le mani con la vendetta, astenendosi dal ricorrere alla violenza contro chi l’ha danneggiata. Sono, in breve, pagine che insegnano a riconoscere l’orrore della reclusione e a dare il giusto peso anche ad un solo giorno di galera.
La sezione di massima sicurezza, separata dal resto del reclusorio, ospita dieci ex terroriste. Quando devono compilare i moduli (perché anche chi è condannato alla morte civile deve comunque sottomettersi a una qualche burocrazia) alla voce «scadenza della pena» lasciano lo spazio vuoto.
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