A quasi nove anni di distanza dai fatti, arriva una sentenza destinata a lasciare il segno. Il Tribunale civile di Pisa ha riconosciuto un risarcimento complessivo di circa 3 milioni e 650 mila euro, oltre a interessi e spese legali, a favore di un bambino e della sua famiglia, per le gravi conseguenze riportate alla nascita durante un parto avvenuto nel giugno 2016 all’ospedale Apuane di Massa.
Secondo quanto stabilito dal giudice, la gestione del parto non sarebbe stata conforme alle buone pratiche cliniche. I sanitari avrebbero infatti dovuto optare per un taglio cesareo d’urgenza, ma decisero di attendere il naturale decorso del travaglio. Una scelta che, come emerso nel processo, avrebbe avuto un ruolo determinante nell’insorgere di una paralisi cerebrale infantile che oggi compromette in modo severo la qualità della vita del bambino.
Una vita segnata fin dalla nascita
Il piccolo è nato con una diagnosi di paralisi cerebrale bilaterale di tipo misto, una condizione che comporta gravi difficoltà motorie, disturbi sensoriali e importanti deficit cognitivi. Sin dai primi giorni di vita ha necessitato di cure specialistiche quotidiane e di un’assistenza continua, trasformando radicalmente l’esistenza della sua famiglia, costretta a riorganizzare ogni aspetto della vita personale e lavorativa.
Il procedimento giudiziario, durato diversi anni, ha ricostruito in modo dettagliato quanto accaduto prima e durante il parto, evidenziando una serie di omissioni e sottovalutazioni che, secondo i giudici, avrebbero inciso in modo decisivo sull’esito finale.
I segnali ignorati prima del parto
La giudice Alessandra Migliorino, dopo aver disposto una perizia medico-legale e analizzato l’intera documentazione sanitaria, ha parlato di una condotta caratterizzata da “molteplici profili di criticità”. In particolare, già nelle 24 ore precedenti alla nascita, i tracciati cardiotocografici, strumenti fondamentali per monitorare contemporaneamente il battito cardiaco fetale e le contrazioni uterine, avrebbero mostrato segnali di sofferenza del feto. Tali elementi, tuttavia, non sarebbero stati adeguatamente valutati dal personale sanitario, con la conseguente mancata decisione di procedere a un parto cesareo.
Secondo il Tribunale, questa prima omissione ha rappresentato un passaggio cruciale nella catena di eventi che ha portato al danno neurologico.
Otto ore di travaglio in condizioni critiche
La situazione, sempre secondo quanto accertato in sentenza, sarebbe ulteriormente peggiorata il giorno successivo, durante le otto ore di travaglio. In questa fase, le condizioni del feto apparivano ormai chiaramente compromesse, tanto da rendere necessario un intervento immediato.
Nonostante ciò, i sanitari avrebbero scelto di proseguire con il parto naturale, rinviando ancora il ricorso al cesareo. Una decisione che, per i giudici pisani, non trova giustificazione alla luce del quadro clinico emerso e delle evidenze documentate.
Il nesso causale e le responsabilità
Nel motivare la decisione, il Tribunale ha escluso che le gravissime conseguenze riportate dal bambino siano riconducibili a eventi naturali, imprevedibili o inevitabili. Al contrario, il danno cerebrale viene attribuito in modo diretto alla condotta colposa dei sanitari.
Nella sentenza si sottolinea come un corretto adempimento della prestazione sanitaria avrebbe consentito di individuare tempestivamente la sofferenza fetale e di eseguire un parto cesareo in tempi adeguati. Questo intervento avrebbe potuto evitare o quantomeno ridurre gli effetti dell’ipossia, la carenza di ossigeno che ha determinato la lesione cerebrale permanente.
Il maxi risarcimento
Alla luce di queste considerazioni, il Tribunale di Pisa ha stabilito un risarcimento complessivo di circa 3 milioni e 650 mila euro, destinato al bambino e ai suoi familiari, tenendo conto sia del danno biologico gravissimo sia delle ripercussioni esistenziali ed economiche subite dalla
famiglia nel corso degli anni. Sarà ora l’Asl Toscana nord ovest a dover corrispondere l’importo stabilito in questa sentenza di primo grado, che potrebbe essere oggetto di impugnazione nei successivi gradi di giudizio.