
«Salviamo la gente in Valseriana, chiudete la Zona rossa». A fine febbraio del 2020 l’appello di Regione Lombardia al governo di Giuseppe Conte cadde nel vuoto. È una valanga di rivelazioni l’audizione dei giorni scorsi in commissione Covid del professor Massimo Antonelli, direttore del Dipartimento di Scienze dell’emergenza, anestesiologiche e della rianimazione del Policlinico universitario Agostino Gemelli. Secondo lo scienziato fu il direttore generale dell’Azienda regionale Emergenza Urgenza (Areu) della Lombardia, chiamato in Cts a rappresentare tutte le Regioni, a chiedere di istituire repentinamente la Zona rossa in Valseriana. Rispondendo al presidente della commissione Covid Marco Lisei (Fdi), Antonelli sottolinea che «chi lavorava molto sul territorio, per esempio il dottor Zoli, ha dato delle interpretazioni che favorivano, vista la numerosità dei morti e dei casi gravi che si erano sviluppati, la popolazione che era in quella zona. Lì il virus continuava a diffondersi, i morti continuavano a vedersi e non avevamo mezzi».
Come ha anticipato il Giornale pochi giorni fa, la cronistoria della mancata chiusura della Valseriana l’aveva data lo scorso aprile Giovanni Rezza dell’Istituto Superiore di Sanità che sarebbe entrato solo successivamente quale membro permanente del Cts. Senza fare nomi Rezza anticipò alla commissione la stessa versione di Antonelli: «Il 3 marzo del 2020 il Cts esamina la richiesta della Regione Lombardia della Zona rossa in Val Seriana. Io ero molto spaventato dalla possibilità che il virus potesse muoversi dalla Vaseriana verso Bergamo, perché Alzano e Nembro sono molto vicini. Se l’epidemia prende Bergamo, dopo se ne va a Milano e parte in tutta Italia: questo era il punto fondamentale», ricorda Rezza nell’audizione recentemente desecretata.
Rezza aveva spiegato che i parametri per l’istituzione di eventuali zone rosse erano chiari: «Insieme a Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler valutiamo il numero di casi Comune per Comune; quando gli ho chiesto quando secondo lui bisognava chiudere, mi ha risposto: quando ci sono delle catene di trasmissione più lunghe di 20-21 casi, perché bisogna considerare l’incidenza per 10mila abitanti e quelli sono paesi abbastanza piccoli».
Anche il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro e il ministro della Salute Roberto Speranza si dichiarano favorevoli alla misura: «Chiaramente chiedo al presidente dell’Istituto superiore di sanità di portare questa istanza in Cts - ricorda Rezza - che dà un parere favorevole all’adozione delle misure restrittive ad Alzano e Nembro, per due motivi: l’elevato numero di casi, e quindi un’elevata incidenza, soprattutto a Nembro, e una contiguità con Bergamo. Il parere viene trasmesso; il 4 marzo si chiede un approfondimento che l’Istituto superiore di sanità fa e in effetti afferma che vale la pena prendere questa misura restrittiva. Quindi il 5 marzo il Cts invia la lettera al ministro e da quello che mi risulta il ministro avrebbe anche firmato il provvedimento restrittivo (quantomeno era favorevole), aveva raccontato l’ex membro del Cts.
Ma nel racconto di Rezza c’è un «però» pesante, che stoppa tutto: «Il 6-7 marzo c’è una riunione del Cts alla presenza del presidente del Consiglio, ma contemporaneamente succede che Province con un numero di casi più alto di dieci per 10mila vengono segnalate anche in Emilia-Romagna, in Veneto e nelle Marche. Allora a quel punto che succede? C’è un parere favorevole a ulteriori restrizioni, ma a quel punto ci deve essere per forza una decisione politica. Io dico una cosa: noi tecnici siamo sempre stati sentiti, dopodiché le decisioni le prende la politica». Insomma, fu Conte a non firmare il decreto di chiusura della Valseriana proposto prima dalla Regione Lombardia, poi dal Cts e dallo stesso Speranza. Non fu la scienza a decidere di non chiudere la Valseriana. Fu la politica e l’allora premier Conte «quando i dati potevano sostenerla», continua Rezza.
Ma è sui motivi che l’ex membro della task force e del Cts sgancia la seconda, clamorosa rivelazione del suo intervento.