
I “Tesori d’Oriente” – questo il nome dell’operazione della polizia – erano soldi. Un tesoro di soldi: almeno un milione di euro solo negli ultimi quattro mesi. Tutti, naturalmente, “in nero”, quando non direttamente provenienti da attività illecite. Denaro, raccolto in gran parte tra commercianti cinesi, che andava ripulito.
Per riciclarlo era stata messa in piedi una rete mista tra cinque imprenditori cinesi e tre italiani, tutti residenti nel Nord-Est (uno solo a Bologna), smantellata tra martedì sera e ieri mattina grazie a un’indagine della Procura di Treviso e al blitz della squadra mobile di Venezia: per gli otto sono scattati gli arresti, sette in carcere e uno ai domiciliari.
Tutto comincia a novembre scorso, durante un’indagine su un presunto giro di prostituzione “mascherata” all’interno di alcuni centri massaggi gestiti da cittadini cinesi in Veneto, intestatari anche di attività “in chiaro”, come ristoranti o negozi di abbigliamento. Gli investigatori capiscono in fretta che l’attività di prostituzione svolta in quei “centri benessere” era solo la punta dell’iceberg, e che sotto la superficie vi erano massicce movimentazioni di denaro. E seguendo i soldi, ricostruiscono il meccanismo dell’organizzazione.
Al vertice, secondo la procura, cinque imprenditori cinesi attivi nel settore delle sale slot o titolari di bar, che si sarebbero alleati per l’occasione con tre imprenditori italiani del comparto riciclaggio del ferro (e che, in questo caso, stando all’ipotesi investigativa, avrebbero riciclato anche soldi). Il gruppo offriva ad altri commercianti cinesi, attivi in vari settori leciti e non leciti in Veneto, Friuli ed Emilia il servizio di raccolta e “lavaggio” del denaro, previo pagamento di una piccola percentuale per chi curava l’attività. La banda poteva contare su un quartier generale a Solesino, nel Padovano, dove i pacchi di soldi raccolti tra i connazionali cinesi venivano portati e nascosti in un doppio fondo creato ad hoc nel pavimento del locale: solo al momento del blitz sono stati ritrovati 150mila euro, ma i soldi “fiutati” nel corso delle attività d’indagine, come detto, sarebbero stando all’ipotesi investigativa pari ad almeno un milione di euro.
Il denaro veniva trasportato verso il covo padovano e poi reindirizzato verso varie destinazioni tramite auto dotate di doppi fondi. Le somme raccolte venivano riciclate direttamente su conti correnti esteri grazie all’utilizzo di app di pagamento (Alipay e WeChat) basate in Cina, app che permettono trasferimenti istantanei di somme anche elevate tra utenti, aggirando i canali bancari tradizionali e rendendo dunque impossibile la tracciabilità per le autorità fiscali e antiriciclaggio, oltre a consentire la simulazione di vendita di beni o servizi tra soggetti in modo da giustificare un trasferimento di somme verso l’estero.
Parallelamente, vi era il presunto ruolo degli imprenditori italiani: l’ipotesi degli inquirenti è che questi si prestassero a incassare i soldi in contanti trasferendo le somme corrispondenti oltreconfine con false fatturazioni, grazie ai propri rapporti con aziende non italiane. Una ricostruzione che resta ancora da accertare, ma che ha già portato all’azzeramento della rete.