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"Vi dico qual è la linea rossa che il giornalista non deve oltrepassare"

Gianluigi Nuzzi è tra i super gli ospiti della masterclass di videogiornalismo di inchiesta di Alessandro Politi, racconta i rischi e i meccanismi dietro al lavoro del giornalista d'inchiesta

"Vi dico qual è la linea rossa che il giornalista non deve oltrepassare"

Un’azione comporta sempre una reazione. Soprattutto se si indaga in contesti delicati, dove in ballo ci sono gli interessi occulti dei cosiddetti “poteri forti”. Ostacoli, ritorsioni, pressioni, minacce più o meno velate, azioni giudiziarie sono solo alcuni dei contraccolpi che il giornalista investigativo deve mettere in conto. Fa parte del mestiere. Ne abbiamo parlato con Gianluigi Nuzzi - gornalista, saggista, conduttore di Quarto grado, autore di numerose e importanti inchieste e tra i super ospiti della masterclass di The Newsroom Academy in video giornalismo investigativo - che ci ha spiegato quali sono le “linee rosse” da non oltrepassare, se non si vuole finire schiacciati.

Da dove nasce l’interesse per affari, crimini e segreti dei “sacri palazzi”?

L’interesse per il Vaticano è nato casualmente nel 2007-2008 quando ebbi modo, come inviato del settimanale Panorama, di entrare in possesso dell’archivio segreto di monsignor Renato Dardozzi, che, oltre a essere segretario della Pontificia accademia delle scienza, era una specie di Mr Wolf di "Pulp Fiction": aveva competenze economiche, faceva parte dei “comitati di crisi” interni al Vaticano che gestivano tutte le emergenze che potevano creare imbarazzo alla Santa Sede o potevano suscitare scandali. E da lì è nata l’idea di scrivere “Vaticano S.p.a.”. Poi, ho avuto subito la percezione che era un filone inesplorato dai giornalisti…chi per scarsa possibilità di avere delle fonti interne al Vaticano, chi perché era abituato a baciare la pantofola del potente di turno, chi per altri interessi. Sta di fatto che quel mondo era poco scandagliato, se non da parte di tutta una certa stampa anticlericale, cosa che io non sono. Quindi c’era la possibilità di approfondire, di essere un apripista, di rompere un tabù, che è la cosa più importante. Il giornalismo d’inchiesta ha successo nel momento in cui supera il perimetro della conoscenza collettiva. Il Vaticano suscita un grande interesse perché, oltre ad avere un ruolo diplomatico, politico e geopolitico rilevante, amministra i soldi dei fedeli. Ed è proprio andando a vedere come che si è aperta un’inchiesta durata una decina d’anni.

Come si indaga in un contesto così impenetrabile?

Sicuramente con l’aiuto delle fonti. Perché il Vaticano è un ambiente talmente impermeabile, poco avvezzo ai rapporti diretti con i giornalisti che, visto il Paese che eravamo e che siamo, la cosa migliore era cercare dei documenti e delle fonti che avessero un’altissima qualità e attendibilità. Altrimenti non sarei sopravvissuto.

Chi indaga sui “poteri forti” deve mettere in conto molti rischi e molti ostacoli. Quali hai incontrato?

Indagare sui sistemi di potere occulti implica sempre dei contraccolpi. Ed io li ho vissuti quasi tutti. Il più semplice è l’offensiva giudiziaria tramite querele, atti di citazione e quant’altro per impaurire il tuo editore, chiedendo grandi risarcimenti di danni. Proprio quando ero a il Giornale l’abbiamo vissuto in maniera significativa, anche se il 99% delle cause finiva in nulla, si trattava di quelle che vengono definite tecnicamente “liti temerarie”. Poi, ci sono le pressioni di tipo diverso che possono essere sul direttore, sull’editore, su te stesso che indaghi. Quando ho iniziato a occuparmi di Vaticano, tutti mi sconsigliavano di farlo, mi avvicinavano dicendomi: “Perché fai queste cose, così non farai mai carriera”. Quando su il Giornale pubblicammo delle intercettazioni riservate, venni pedinato per giorni e giorni e vennero fatte addirittura delle relazioni sui miei spostamenti.

Hai mai pensato di mollare?

Anche quando ho pubblicato un libro con un pentito di ‘ndrangheta ho avuto timore di toccare delle cose un po’ pericolose, però, non ho mai pensato di mollare. Perché se ci pensi vuol dire che hai sbagliato mestiere. Oltre ad aver subito minacce e un processo in Vaticano da cui ne sono uscito prosciolto, mi è successo anche che mi puntassero una pistola addosso. Ero in Albania durante la guerra civile e mentre ero seduto in auto un ragazzino, che avrà avuto 14-15 anni, mi ha puntato la pistola a un metro di distanza. In questo caso non ci si deve lamentare, perché se sei lì è perché ti assumi delle responsabilità, ma anche perché accetti dei rischi.

Qual è la linea rossa che consiglieresti di non oltrepassare a un aspirante giornalista investigativo?

Sono due le linee rosse: una è quella del codice e delle leggi e l’altra è avere la consapevolezza del valore della vita delle altre persone e della capacità manipolatoria che possono avere nel fabbricare notizie, documenti e falsità contro di te. Non basta fare il proprio mestiere, bisogna anche avere gli anticorpi e capire in anticipo le mosse che può fare chi è infastidito da te e che tipo di reazione può avere chi finora ha vissuto nell’assoluta impunità e indifferenza da parte degli altri.

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Non mollare spesso serve per arrivare alla verità. Penso alla vicenda di Emanuela Orlandi. Quanto è servito tenere alta l’attenzione?

La pressione mediatica è fondamentale affinché si possa tenere alta l’attenzione di chi dovrebbe indagare, o di chi sa la verità e la tiene custodita nel cuore. L’attenzione dei media serve perché le cose non cadano nel dimenticatoio, provocando l’atrofizzazione di tutti gli strumenti investigativi. Per quanto riguarda le persone scomparse come Emanuela Orlandi, ma anche storie molto più eclatanti, se vogliamo, rispetto al comune sentire, e penso a Denise Pipitone, alla piccola Celentano…insomma, sono tutte storie dove ci sono mamme che aspettano la verità. Dove c’è un bisogno di verità forte bisogna sempre tenere alta l’attenzione. Poi, sono altri che conducono le inchieste, però la cosa importante è che lo facciano. Quando sento che vengono archiviate perché non si è arrivati da nessuna parte, io, ecco, questa economia della giustizia credo che sia lesiva dei diritti dell’uomo. Andassero a risparmiare su altre cose, anche sempre nel settore della giustizia…pensiamo ai tanti processi, soprattutto nel civile, che rimangono anni a bagnomaria.

Casi come quello di Emanuela Orlandi hanno risonanza internazionale e arrivano a un pubblico vastissimo. Cosa deve avere una storia per suscitare un tale interesse?

Una storia suscita interesse soprattutto quando c’è un elemento di immedesimazione, cioè quando il pubblico immagina, capisce che questa tragedia poteva capitare anche a noi. Una ragazza che va a fare un corso di musica, esce e sparisce: Emanuela poteva essere figlia di tutti. Anche la storia di Alfredino Rampi che cade nel pozzo è una storia di tutti, perché poteva succedere al figlio di chiunque che, camminando in un prato, finisse in un pozzo. Ecco, ritengo che l’immagine dell’immedesimazione sia la prima molla.

Poi, cosa si innesca?

Un’altra molla è l’indignazione, perché se una storia subisce degli insabbiamenti, dei rallentamenti, del disinteresse suscita un principio di rabbia che alimenta la notizia. Pensiamo all’omicidio di Marco Vannini: un ragazzo ammazzato da un’intera famiglia, quella dei Ciontoli, suoi prossimi congiunti se si fosse sposato con la sua fidanzata. Qui c’è un classico esempio di come l’indignazione ha trasformato il caso in una storia nazionale. Anche l’atteggiamento dei parenti è decisivo. Per esempio, il fratello di Paolo Borsellino ha avuto un ruolo importante nel portare avanti la memoria di Paolo. Anche la mamma di Marco Vannini, chiedendo giustizia come tante altre mamme, che una volta chiamavamo “mamme coraggio”, è stata sicuramente una figura fondamentale per non spegnere l’attenzione.

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Certe inchieste diventano qualcosa di più che una semplice ricerca della verità. Qual è la chiave per rimanere lucidi ed attenersi ai fatti?

Per mantenere la lucidità bisogna sempre avere un contro canto, una posizione alternativa alla verità dominante. A Quarto grado, spesso, se la curatrice Siria Magri ha una posizione io, in automatico, assumo la posizione contraria. Questo perché non bisogna mai innamorarsi delle tesi più facili, più popolari, più scontate, ma bisogna sempre immaginare una verità alternativa. Se ti innamori di una tesi questa diventa la verità, e una tesi non è la verità. Poi, non credo esista una verità assoluta e comunque non spetta certo a noi indicarla. Esistono una verità processuale, una umana, una familiare…ci sono tante verità.

L’importante è non abbandonarsi a una posizione precostituita che ti porti a leggere tutto in maniera univoca e unidirezionale, altrimenti rischi di fare solo un giornalismo parziale.

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