Ne abbiamo bisogno

L’abbandono del nucleare a seguito del referendum di vent’anni fa ha avuto, in Italia, conseguenze assai gravi. Un Paese che aveva - e che ha ancora, di fatto - una notevole scuola di studi nel campo della fisica (fin dai tempi dei «ragazzi di via Panisperna») ha distrutto in un sol giorno un notevole patrimonio intellettuale, ostacolando la valorizzazione di una delle sue più rilevanti tradizioni scientifiche.
Quel referendum fu espressione di una scelta tutta ideologica, figlia di quegli anni. Il risultato è che ora ogni nostro confinante dispone di impianti nucleari e per questo motivo la rinuncia all’atomo non ci pone al sicuro da nulla.
Per di più, quella decisione sacrificò investimenti rilevanti sull’altare di una propaganda demagogica. La centrale di Montalto di Castro, ad esempio, ancor prima di essere inaugurata fu convertita in una centrale termoelettrica tradizionale, mentre altri impianti (a Trino Vercellese e a Caorso, ad esempio) furono chiusi quando erano ancora attivi e validissimi.
Oggi l’opinione pubblica italiana è cambiata ed è anche significativo che ogni dibattito focalizzi sempre più l’attenzione sulla gestione delle scorie (problema serio, ma certamente gestibile), e non già sulla sicurezza e sui tremori post-Chernobyl che produssero quel voto. Questo in virtù del fatto che dopo il 1987 non si sono avuti più incidenti, ma anche perché - appunto - appare irragionevole non avere impianti sul territorio italiano quando poi ve ne sono in Francia, Svizzera e Croazia. Senza contare che quella nucleare è un’energia pulita, tanto che perfino uno dei mostri sacri dell’ecologismo (e uno tra i suoi teorici più estremisti), James Lovelock, propone oggi di puntare proprio sul nucleare.
Il clima mutato deve trovare una classe politica responsabile, in grado di sfruttare tale occasione. L’economia italiana ha infatti bisogno di poter disporre di un’offerta diversificata e se da un lato è certamente impossibile prescindere dagli idrocarburi, è però egualmente vero che è necessario poter far fronte alle minacce provenienti da un mercato - quello del petrolio - troppo dominato da un quadro geopolitico sempre incerto e che potrebbe perfino aggravarsi negli anni a venire.
Abbiamo insomma bisogno di rigassificatori, che allentino la nostra dipendenza da Russia e Algeria, ma anche di una quota di energia che provenga, appunto, dal nucleare. Molti ambientalisti sostengono che l’atomo non può essere una soluzione al problema energetico, soprattutto perché il costo di tale energia resta alto. Ma aprire tale mercato significa solo rendere possibile tale eventualità e permettere che anche da noi, come in ogni altro Paese occidentale, le imprese che producono e distribuiscono energia possano “firmare” tale polizza assicurativa, utile soprattutto a sventare i rischi connessi a sempre possibili crisi petrolifere.
Ovviamente, un auspicabile accesso al nucleare deve avvenire nel quadro del più generale processo di liberalizzazione che l’intero sistema energetico - in Italia e in Europa - sta conoscendo. Ricordando che la tragedia di Chernobyl fu il frutto di una disastrosa gestione statale, è bene immaginare che in un nostro mercato che si vuole sempre più aperto ci sia allora spazio per soggetti privati.

Questo anche al fine di distinguere nettamente il controllore (lo Stato), a cui spetta il compito di vigilare, e il controllato (l’impresa produttrice di energia), che deve operare al meglio: nell’interesse di tutti noi.
Carlo Lottieri

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