
Il titolo del momento, Hollow Knight: Silksong, continua ad essere sulla bocca di tutti e per una serie di ottimi motivi. Il nuovo risultato dello sforzo di Team Cherry, pur con qualche difetto, è sicuramente un prodotto di qualità molto elevata e un’aggiunta di spessore al sempre crescente panorama dei cosiddetti giochi “metroidvania”. Esiste, però, un’altra categoria sotto cui è stato classificato, ovvero quella dei soulslike. E uno degli elementi di forza del sotto-genere, presente anche in Silksong, è il modo in cui viene narrata la trama.
Dal capostipite Demon’s Soul, passando per Dark Souls, Elden Ring, lo stesso Hollow Knight e tanti altri titoli, l’approccio scelto è quello di non raccontare direttamente la storia: le sequenze cinematiche sono poche, e forniscono appena una manciata di informazioni; i dialoghi con gli Npc (personaggi non giocanti) sono brevi e criptici, spesso intrisi più di considerazioni filosofiche che di elementi di trama; nella maggior parte dei casi – Silksong è una delle poche eccezioni – il nostro avatar non ha un background, è un “signor nessuno” catapultato all’interno dell’avventura. Sono i giocatori stessi a dover scoprire il passato, il presente e il possibile futuro del mondo che si trovano ad esplorare. Ma quali sono i mezzi messi a loro disposizione?
In primo luogo, l’ambientazione stessa, vero e proprio archivio narrativo di environmental storytelling. Al di là delle specificità singole di ogni titolo, nei soulslike vengono sempre presentati regni e nazioni in rovina, decaduti da tempo a causa di una qualche catastrofe e intrappolati in una stasi forzata o in un ciclo di morte e rinascita, che spetta al personaggio principale rompere o perpetuare. Edifici in rovina, cadaveri dimenticati, statue, design dei nemici e ogni altro dettaglio forniscono elementi di una storia – o di storie di epoche intere – che i giocatori devono mettere insieme un pezzo alla volta, seguendo dal costante filo rosso della tragedia e della malinconia.
Ad aiutarli, vi sono gli oggetti recuperati durante l’avventura, le cui descrizioni spesso riescono a colmare lacune e a permettere di effettuare collegamenti tra brandelli di informazioni. Da ultima, c’è l’interpretazione. Vista proprio la natura delle ambientazioni, molte conoscenze su ciò che è accaduto nel passato sono andate perdute e gli utenti non avranno mai una conoscenza completa. Su certi elementi, alcuni anche di rilevanza non secondaria, si potranno solo fare teorie e speculazioni che danno vita a lunghe discussioni nei forum dedicati a questi giochi. A volte, le risposte arriveranno dopo anni di attesa. Basti ricordare tutte le ipotesi sull’identità del primogenito di Lord Gwyn nel primo Dark Souls, uscito nel 2011: la sua vera identità è rimasta un mistero fino a quando non lo si è affrontato direttamente nel terzo capitolo della saga, rilasciato nel 2016. O a tutte le domande lasciate in sospeso fino all’espansione The Ringed City, arrivato nel 2017.
In molti considerano questa narrazione indiretta una forma di pigrizia, nonostante le pagine e pagine di lore scritte in fase di sviluppo in modo da dare coerenza alle informazioni date ai giocatori. Per chi scrive e per tutti i fan del sotto-genere, però, il non avere tutto servito su un piatto d’argento è una forma di stimolo all’esplorazione. Dà alle ore passate a scavare nel mondo di gioco uno scopo e un senso di soddisfazione, quando i collegamenti vengono effettuati.
È il fascino del silenzio, o meglio di quel sottile spazio tra detto e non-detto, tra racconto e scoperta, che spinge sempre a tornare per trovare quel dettaglio che si è mancato la prima volta e per trasformarsi di nuovo da giocatori in narratori.