Qualche volta capita di incontrarli come oasi nella notte. Sono quei negozi, una sorta di store americano dove trovi un po’ di tutto, con la licenza di stare aperti quando di solito la gente dorme, o la domenica, nei giorni di festa. Negli ultimi tempi se ne vedono alcuni etnici, proprietà di famiglie di immigrati, che vendono spezie e coca cola, a metà tra un discount e la vecchia bottega di paese. È vero. Ti piacciono. Hanno un sapore da anni ’50, quando l’Italia si stava rimboccando le maniche e ricostruiva una terra distrutta e affamata. Forse allora non c’era tanta burocrazia. Forse in quegli anni l’importante era lavorare.
Fatica, pochi soldi, un certo ottimismo, la voglia di lasciarsi tutto alle spalle e un liberismo naturale. Lo Stato ancora non dispensava posti da bidello e pensioni facili. Quindi l’unica strada per ricostruire era lavorare, senza stare troppo a guardare gli orari di apertura e chiusura.
Forse anche adesso serve una spinta da anni ’50. Nella manovra, per esempio, c’è una norma sperimentale che abolisce, nei centri turistici e nelle città d’arte, l’obbligo di chiudere la domenica, nei giorni festivi, la notte e la mezza giornata infrasettimanale. L’idea è questa. Nessun divieto: chi vuole riposare sta chiuso, chi ha bisogno di soldi lavora. Insomma, libertà di scelta. È una legge scritta dal ministro Brambilla, ma non piace alle associazioni di commercianti. Dicono che la norma è inutile. È già prevista. La flessibilità è garantita. È una materia che spetta alle Regioni. Ma soprattutto, dicono, è un favore alla grande distribuzione, che può permettersi di pagare gli straordinari. Con il ministro si schierano invece gli industriali del turismo. Chi ha ragione? Come mai i commercianti temono le liberalizzazioni?
I negozi sono rimasti scottati dalle libere licenze di Bersani. La concorrenza è aumentata e, soprattutto nei piccoli centri, non c’erano abbastanza clienti per tutti. Solo che la colpa, più che delle vendite, era delle tasse e degli studi di settore, disegnati da inguaribili ottimisti. È per questo che ora i commercianti vedono in ogni manovra dei governi qualcosa di sospetto, un’altra fregatura. La verità è che le liberalizzazioni senza la riforma fiscale lasciano i commercianti in mezzo al guado. Non è facile navigare in mare aperto con il fardello di uno Stato pesante, che reclama soldi e vita per coprire il suo debito pubblico. Il liberismo funziona quando le tasse non ti mangiano la vita. In Italia invece ci sono sacche di corporazioni, caste, pesi, balzelli, burocrazie, sommerso, nero, clandestino, furbi e sanguisughe che appesantiscono chi ha il coraggio di fare impresa. I commercianti hanno quindi le loro ragioni, ma l’idea dei negozi fuori orario resta bella. È il segno di un’Italia che non ha più paura di accendere le luci la notte o la domenica. Non ha paura di provarci. Un’Italia che non si arrocca, che respira, che scommette sul lavoro. È una scelta faticosa, ma non impossibile. Solo che bisogna crederci fino in fondo.
Come scrivono quelli del Foglio, in questa manovra un guizzo liberista c’è. Il principio di «libera domenica in libero Stato» si intravede. Non solo per gli orari dei negozi. Ci sono sgravi per le imprese degli under 35. E poi una cosa passata quasi in sordina che riguarda il mondo della scuola. È la liberalizzazione degli uffici di collocamento.
Le scuole superiori e le università potranno così raccogliere i curricula dei loro studenti e fare da mediatori con le aziende. La scelta degli atenei potrà passare anche per questa strada. È un po’ quello visto in certi film americani. Un sogno? Forse. Ma non possiamo rassegnarci a un Paese di caste, muri, frontiere e raccomandati.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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