Nel Belpaese salari fermi da 20 anni

Una volta c’era l’Italia che insaporiva la polenta con l’aringa: affamata, e poverissima. Poi c’è n’è stata una opulenta e godereccia: quella che viveva al di sopra delle proprie possibilità. Adesso, nella terra di mezzo della crisi, c’è l’Italia sobria per auto-imposizione, resa parca nei consumi e nello stile di vita da salari al palo da vent’anni, dal profluvio di tasse, imposte e balzelli e dal timore di perdere il posto di lavoro. Un ex-Belpaese sempre più di vecchi e di culle semi-vuote. Una nazione che fatica a progettare il futuro perché incapace di offrire prospettive ai giovani, e in cui diventa ancora più profondo il solco che separa Nord e Sud e le donne dagli uomini. E dove l’ascensore sociale, quello che permette ai figli d’operai di vestire la grisaglia da manager anzichè la tuta blu, è quasi fermo per manutenzione.
Mai come quest’anno il Rapporto annuale Istat è stato un tale condensato di criticità, ombre e problemi. Come se il 2012 avesse presentato, all’improvviso, il conto di un decennio di crescita asfittica, la peggiore (+0,4%) di tutta l’Unione europea. Andrà anche peggio quest’anno (-1,5% la contrazione stimata del Pil), per poi riprendere, nel 2013, col solito andamento lento (+0,5%). Paghiamo la cronica, e irrisolta, scarsa produttività, appena attenuata dalla tenuta dell’export (1,2% quest’anno). Colpa delle poche risorse destinate a ricerca e sviluppo, dei colpi di accetta agli investimenti pubblici, della piaga del sommerso (tra 255 e 275 miliardi, cioè fra il 16,3% e il 17% del Pil) e dell’incapacità di attrarre investimenti stranieri spesso a causa di una burocrazia respingente.
Negli anni Duemila «l’Italia ha dilapidato il dividendo dell’euro», sintetizza Enrico Giovannini, presidente dell’istituto di statistica. Dopo gli sforzi e i sacrifici fatti per entrare nel club della moneta unica tra il 1992 e il ’93, il Paese si è come riassestato su vecchie abitudini contrappuntate da una preoccupante tendenza all’indebitamento dello Stato, da avanzi primari dissolti e da una pressione fiscale diventata via via insopportabile. Così, il carico delle tasse sulle famiglie è passato dal 13,2% degli anni 1992-1996 al 14,1% del 2001, per raggiungere il 15,1% nel 2011, mentre il potere d’acquisto è sceso di circa il 5% e la percentuale di famiglie che si trovano al di sotto della soglia minima di spesa per consumi è attorno all’11%. Ma il dato generale sulla povertà scoperchia le differenze geografiche: al Nord l’incidenza della povertà è al 4,9%, al Sud è al 23%.
Evidente l’effetto-crisi sul carrello della spesa: una contrazione delle spese private prevista per quest’anno al 2,1%, dato peggiore di quello 2009 (-1,9%), quando il Pil tricolore aveva subìto un tracollo del 5,5% in seguito al virus dei mutui subprime. No shopping, dunque, un fenomeno derivato dalla situazione del mercato del lavoro. L’Istat colloca il tasso di disoccupazione al 9,5% nel 2012 e al 9,6% nel 2013, ma il dato più preoccupante riguarda quelli che potremmo chiamare in modo moraviano “i rassegnati“, ovvero gli 1,8 milioni di persone che pur non avendo un impiego hanno smesso di cercarlo perchè pensano che non lo troveranno mai. Mentre l’Italia invecchia (l’età media degli uomini sfiora gli 80 anni, quella delle donne gli 85), molti entrano a far parte dei cosiddetti neet (“not in education, employment or training“), cioè coloro che non studiano, non lavorano, nè frequentano corsi di formazione. Sono ben 2,1 milioni. L’alta disoccupazione giovanile e il boom dei precari nell’ultimo ventennio (+48%) spiegano il motivo per cui quattro giovani su dieci vivono ancora in famiglia. Bamboccioni obbligati.


In un Paese in cui «le opportunità di miglioramento rispetto ai padri si sono ridotte e i rischi di peggioramento sono aumentati» (solo l’8,5% di chi ha un padre operaio diventa dirigente), chi oltre ai giovani soffre di più sono le donne. Il 33,7% tra i 25 e i 54 anni è senza reddito, e una donna su tre perde il posto subito dopo la nascita del figlio. Essere madri è ancora una colpa.

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