Nel paese del capo dei tradizionalisti la foto di Fido al posto del crocifisso

A Borgo San Lorenzo, Firenze, hanno due glorie: don Lorenzo Milani e Fido. Del primo, quando rese l’anima a Dio nel 1967, il professor Pucci Cipriani, fondatore e direttore di Controrivoluzione, osò dire davanti alle telecamere di Tv7, il programma della Rai, che picchiava i bambini, «e da allora per me fu la morte civile». Del secondo, quando cessò di scodinzolare nel 1958, mise in dubbio l’agiografia, «delitto di lesa maestà, perché nell’ufficio dei sindaci Graziani, Panchetti e Margheri c’è sempre stata appesa una foto di quel cane, al posto del crocifisso».
Del priore di Barbiana si sa. Dell’animale – un bracco, a giudicare dalle fattezze che gli ha dato lo scultore Salvatore Cipolla nella statua di bronzo eretta in piazza Dante – si racconta che l’operaio Carlo Soriani lo avesse raccolto quand’era cucciolo e che, perito il padrone sotto un bombardamento aereo nel 1943, per 14 anni si fosse recato ogni giorno alla fermata della corriera a Luco del Mugello ad attendere colui che non ritornava. Il professor Cipriani ha smontato la poetica vulgata: «Ho parlato con i conducenti del torpedone. Lo vedevano solo qualche volta, come un randagio qualsiasi. Senza contare che durante la guerra un servizio quotidiano di pullman la gente se lo sognava».
Ma poiché nel 1957 il cane fu insignito della medaglia d’oro dal Comune, e l’anno dopo fu seppellito accanto alla tomba del padrone nel cimitero di Luco, e «A Fido, esempio di fedeltà» hanno dedicato un monumento davanti al municipio, e ai sindaci comunisti qui sono subentrati soltanto sindaci diessini, tutto sommato Cipriani avrebbe avuto vita più facile se si fosse ricordato che da queste parti è pur sempre preferibile insultare la memoria di un prete, sebbene sinistrorso, che discutere le virtù eroiche di un cane.
Per di più il professore non ha idee controcorrente solo su prevosti e bestie. È anche il leader italiano dei tradizionalisti cattolici nonché dei legittimisti, quelli convinti che la monarchia abbia origine divina. È stato il primo a pubblicare studi storici approfonditi sulla rivolta dei vandeani e sulle insorgenze popolari antigiacobine e antinapoleoniche in Italia. Dirige il movimento Anti 89 contro la rivoluzione francese. Sogna il ritorno del Papa re. Organizza da 35 anni, all’insegna del motto «A voi il tempo, a noi l’eternità», il raduno di Civitella del Tronto, la «fedelissima» cittadella del Regno borbonico delle Due Sicilie, ultimo baluardo a cedere ai piemontesi, e lì è riuscito nell’impresa di mettere d’accordo il torinese Mario Borghezio, europarlamentare della Lega Nord, col napoletano Gino Giammarino, direttore del periodico meridionalista Il Brigante, sotto gli occhi di Moreno Menini, il più giovane degli otto serenissimi che il 9 maggio 1997 assaltarono il campanile di San Marco a Venezia.
Un certo sincretismo riaffiora periodicamente in questo corpulento docente dalla barba ispida e corta come quella di Gambadilegno. Per esempio è stato in corrispondenza con Mario Sossi, il giudice genovese che fu rapito dalle Brigate rosse e che oggi è abbonato a Controrivoluzione, e prim’ancora ha frequentato il commissario Luigi Calabresi, ma poi è diventato buon amico di Leonardo Marino, uno degli assassini del funzionario di polizia condannato a morte da Lotta continua, e lo ha convinto a scrivere La verità di piombo. Io, Sofri e gli altri (Ares), nel quale denuncia le responsabilità degli ex compagni. Lo scorso dicembre ha anche ottenuto che gli inviti per la presentazione del proprio libro L’altra Toscana. Diario di un conservatore fossero spediti dall’onorevole Riccardo Nencini, ulivista, presidente del Consiglio regionale.
«Calabresi era un uomo buono, generoso, religiosissimo», racconta Cipriani. «Lo conobbi attraverso il professor Duilio Marchesini, che viveva in povertà come un frate e veniva chiamato “il cazzotto di Dio”, perché alle messe beat strappava via di mano le chitarre ai ragazzotti e gliele fracassava. Ero presente quando Calabresi incontrò Marchesini e gli consegnò una busta con dentro il suo primo stipendio guadagnato dopo il trasferimento alla questura di Milano. “Questo è per la tua anziana zia”, gli disse».
Sessantenne, vaticanista del Candido fino alla chiusura, collaboratore della terza pagina della Gazzetta Ticinese ai tempi in cui vi compariva la rubrica La bruschetta di Giuseppe Prezzolini, Pucci Cipriani è convinto che sulla sua regione regni un tranquillo ingegnere informatico scozzese di 37 anni domiciliato a West Calder, vicino a Edimburgo, che lui chiama «Sua altezza imperiale e reale Sigismondo d’Asburgo Lorena, per grazia di Dio Granduca di Toscana», il quale gli ha fatto l’onore di nominarlo motuproprio cavaliere di San Giuseppe. «Suo nonno era Leopoldo II, detto Canapone per via dei capelli biondi, l’ultimo Granduca di Toscana costretto all’esilio nel 1859».
Oltre che il cavaliere di San Giuseppe, che cosa fa nella vita?
«Insegno lettere da trent’anni, ma spero che questo sia l’ultimo».
È stufo della marmaglia ignorante?
«Dei ragazzi non posso dir nulla. Magari rispetto a un tempo sono più fragili, piangono per un nonnulla, però restano i giovani generosi di sempre. Il problema sono i colleghi, tutti sessantottini o figli di sessantottini. E i genitori, che più sono analfabeti e più s’intromettono nella didattica. Non parliamo dei dirigenti scolastici: vengono dal Pci, hanno la mentalità stalinista».
Peggio della scuola di Barbiana.
«Don Milani era un ebreo convertito. Penso che si sia fermato a Isaia, che non sia mai arrivato a Gesù».
Fa l’antisemita, adesso?
«Io amo gli ebrei. Il mio miglior amico si chiama David Levi. Nome e cognome dicono tutto. Abbiamo fatto l’anti ’68 insieme all’Università di Firenze. Una volta i rossi ci chiusero in uno sgabuzzino, dopo averci costretti a passare fra due ali di militanti che ci coprivano di sputi. Fecero filtrare da sotto la porta la benzina minacciando di bruciarci vivi. Non fu una bella esperienza. Ci liberarono dopo tre ore i bidelli. E dire che avevo abbandonato l’Università di Pisa, dove dettavano legge Adriano Sofri e compagni, per non rimetterci la buccia».
Mi diceva di don Milani.
«Mascalzone, maestro improvvisato e sbagliato, manesco e autoritario. Fu prete e parroco, però le sue opere sono prive di qualsiasi accenno alla spiritualità, alla teologia, alla mistica. Non sono io a dirlo, bensì uno scrittore laico insospettabile: Sebastiano Vassalli. Menava i ragazzi con la cinghia, c’è poco da fare».
Ha le prove?
«Chieda a Paolo Cocchi di Rifondazione comunista e ad Alessandro Corsinovi della nuova Democrazia cristiana, che furono suoi allievi. Corsinovi fu massacrato di botte e calci nel sedere solo perché aveva staccato le ciliegie da un albero. Maltrattava anche i confratelli».
Pure!
«Don Luigi Stefani, assistente spirituale nelle forze armate, andò a trovarlo dopo che era uscita la lettera contro i cappellani militari. Don Milani lo processò e lo insultò in presenza dei ragazzi. Monsignor Giovanni Bianchi, vescovo coadiutore di Firenze che era salito a Barbiana per sincerarsi sulle condizioni di salute del priore, fu ricevuto davanti alla scolaresca con queste parole: “Ecco la Curia che esilia e perseguita i santi!”. Sulla via del ritorno il presule, pallido e sudato, dovette fermarsi a riprendere fiato a Borgo San Lorenzo tanto era rimasto traumatizzato dall’accoglienza».
La sento molto addentro alle cose di Chiesa.
«Dopo la laurea ho studiato per tre anni teologia col filosofo Michele Federico Sciacca».
È sposato?
«Celibe, purtroppo».
Perché purtroppo?
«La famiglia è importante. Un buon tradizionalista o si fa una famiglia o si fa prete. Non consiglio a nessuno la vita dello scapolo. I figli sono la continuità storica. E poi è bello parlare e litigare con qualcuno, la sera. Molti dei miei seguaci vorrebbero lavorare 24 ore su 24 per la controrivoluzione. Io invece preferisco che vadano all’osteria con una ragazza. Mai avuto in uggia Bacco, Tabacco e Venere».
Ne ha molti, di seguaci?
«Ovunque c’è un campanile, c’è un tradizionalista. Purtroppo il movimento deve fare i conti con i troppi pagani che allignano nella destra. In Alleanza nazionale c’è questa figura diabolica di Julius Evola, i giovani leggono lui anziché il Vangelo».
Detesta i marxisti, ma vuol fare la rivoluzione anche lei.
«Per niente. La controrivoluzione non è una rivoluzione di segno opposto, ma il contrario della rivoluzione. Uno Stato ordinato secondo il diritto naturale».
Come nasce il diritto naturale?
«Con l’uomo. Infatti al primo posto mette il diritto alla vita. Poi vengono la famiglia e lo Stato. La società dovrebbe essere la copia terrena dell’ordine celeste. Se si rispettano i dieci comandamenti, si sta meglio tutti».
Sigismondo d’Asburgo Lorena li rispetta?
«È un buon cristiano che partecipa ogni mattina alla messa in latino celebrata dal prete nella cappella privata della sua residenza in Scozia. Pensa solo alla moglie e ai tre figli. Mondanità zero, scappatelle zero. Non è come i Savoia».
Più allegrotti.
«Impresentabili. Andai a Napoli a tirargli le uova, il primo giorno che il principe Vittorio Emanuele rimise piede in Italia. Fosse dipeso da me, lui e i suoi eredi restavano in esilio fino alla morte».
Insomma non li rivorrebbe sul trono.
«Un re deve avere legittimità d’origine e legittimità d’esercizio. I Savoia hanno la prima, ma da Carlo Alberto in poi hanno perduto la seconda. Io li chiamo i Carognano, anziché i Carignano. Non si sono mai comportati da re».
Che cos’hanno fatto di grave?
«Hanno fatto l’unità d’Italia in odio alla Chiesa. Hanno scatenato una guerra sporca contro il Sud, macchiandosi di stragi che gridano vendetta al cospetto di Dio. Hanno fucilato al rullo del tamburino i cafoni, poveri bovari innocenti. Hanno varato l’infame legge Pica-Peruzzi, rimasta in vigore per 40 anni dopo l’unificazione, che autorizzava le truppe a passare per le armi i cosiddetti manutengoli: in pratica, siccome i bandi contro il brigantaggio dicevano che nessuno poteva portare più di una pagnotta, ammazzarono migliaia di bambini che non sapevano leggere gli avvisi e giravano ignari per strada con due sfilatini. E dopo le esecuzioni si accanivano sui cadaveri. Persino gli alleati dei Savoia deprecarono le foto dei bersaglieri che tenevano per i capelli le teste dei briganti uccisi, come fossero trofei di caccia. Addirittura gli infilavano uno stuzzicadenti sotto le palpebre per farli sembrare vivi».
Le sta più sullo stomaco Cavour o Garibaldi?
«Senz’altro Cavour. Unificò l’Italia senza mai degnarsi di mettere piede a Napoli. I piemontesi invasori affidarono l’ordine pubblico a Liborio Romano, l’ex capo della polizia borbonica. Il quale ebbe la bella pensata di arruolare la camorra, che fino ad allora era una conventicola folcloristica che proteggeva le donne. Organizzati da Romano, i guappi cominciarono ad andare in giro a spaccare teste. I risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti. Provi il ministro dell’Interno a sradicare la camorra, se ne è capace. Al Sud manca il senso dello Stato perché, da 150 anni, al Sud lo Stato rappresenta l’oppressione. Furono gli unitari a mettere l’imposta sul macinato: sotto i Borboni manco si sapeva che cosa fossero le tasse. Ora il problema del Meridione chi lo risolve? Come fa un Paese che non ha un passato ad avere un futuro?».
Più che a Borgo San Lorenzo sembra nato a Torre del Greco.
«Sono stato due anni a Napoli a insegnare la controstoria. I miei colleghi si riempiono la bocca col colonialismo inglese, ma non ne trovi uno che parli con obiettività di quello piemontese. Mi fa ridere il presidente Ciampi, ex Partito d’azione, che va in giro per la penisola a cantare Fratelli d’Italia. Gli ex azionisti sono comunisti senza partito che hanno sempre avuto sulle scatole il popolo. Si studino la storia dei napoletani, piuttosto. Il fatto è che i nostri politici voglia di studiare non ne hanno».
No, eh.
«Me ne sono accorto quando ho discusso con alcuni di loro lo scandalo del mandato di cattura europeo, questa turpitudine per cui un magistrato bulgaro potrà farmi arrestare in Italia e trasferirmi nel suo Paese, tenermi a marcire nelle sue prigioni medievali e processarmi secondo i suoi codici, sottraendomi al giudice naturale previsto dall’articolo 25 della Costituzione italiana. È il lager europeo. Ho cercato di spiegarlo ad alcuni parlamentari, inviando loro un dossier di 700 pagine. Sa qual è stata la loro reazione? “Sia gentile, ce lo sintetizzi in mezza paginetta”».
Per chi vota?
«Per la Casa delle libertà, turandomi il naso».
Il mio voto vale quanto il suo?
«In questa democrazia sì».
Lo dice con una punta di rimpianto.
«È un modo come un altro per non mangiarsi vivi».
Sono più pericolosi i musulmani o i comunisti?
«La minaccia è rappresentata dalla saldatura fra Islam e sinistra. I comunisti vogliono il caos. Nell’immigrazione selvaggia vedono la formazione di nuove masse proletarie».
Lei è monarchico?
«Sì».
Che cosa c’è di buono nella monarchia?
«Chiedo sempre ai miei ragazzi: quando fate visitare Firenze a un amico lo portate a vedere il Palazzo della Signoria, il Duomo, Ponte Vecchio oppure le case popolari di Scandicci? Ecco, gli Uffizi rappresentano i secoli bui».
In che stato si trova la Chiesa?
«Tragico».
L’ha lasciata così Papa Wojtyla?
«Ce l’ha portata e ce l’ha lasciata».
Pensa che Benedetto XVI correggerà la rotta?
«Lo spero tanto».
Allora guardi questa foto: ritrae il teologo Joseph Ratzinger in giacca e cravatta ai tempi del Concilio, del quale fu uno dei principali ispiratori. Era più vicino a don Milani che a lei.
«Sempre meno eretico di chi ha interpretato male il Vaticano II. Non dimentichiamo che il vescovo Marcel Lefèbvre, considerato il capofila dei tradizionalisti, firmò tutte le costituzioni conciliari, a cominciare da quella sulla sacra liturgia che conserva l’uso della lingua latina nei riti. Sono le degenerazioni del Concilio che vanno fermate: la perdita del sensum fidei, la messa che da sacrificio della croce diventa un’agape protestante in cui si mette in discussione la presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata, tanto che qui a Borgo San Lorenzo c’è un prete che fa mangiare al chierichetto le particole avanzate. Furono due cardinali, il belga Suenens e l’austriaco König, pace all’anima loro, a teorizzare che il Concilio dovesse portare nella Chiesa il pluralismo religioso, la collegialità e l’ecumenismo, vale a dire liberté, égalité, fraternité, i tre principi della più atea delle rivoluzioni».
Quella francese, il suo incubo.
«Il 15 agosto dell’89, nel bicentenario, portai 250 italiani a manifestare a Parigi».
Che cosa c’è di male nella rivoluzione francese?
«È l’utopia. Cambia l’ordine esistente imponendone uno nuovo fondato sul naturalismo e sul relativismo, perciò anticristiano. Sono le logge massoniche, non le masse, a farla. La rivoluzione è un mostro che mangia se stesso. Il peggio viene tutto da lì: totalitarismo, comunismo, nazismo, ’68, Brigate rosse, anni di piombo...».
E detesta Napoleone.
«È il precursore di Hitler. Si può essere criminali anche nella grandezza. In questo dissento dal mio amato Manzoni, che per il resto considero un padre della Chiesa. Il Bonaparte ordina la coscrizione obbligatoria, il più odioso degli editti, perché sottrae i giovani alle famiglie, si porta via le braccia che dissodano i campi, e introduce la guerra totale, il prodromo della bomba atomica.

In precedenza era regola accettata da tutti che le battaglie cessassero alla sera ai rintocchi dell’Angelus e non si combattesse nelle vigilie delle feste di precetto, la domenica e per quasi tutta la quaresima».
Per meritarsi il paradiso che cosa bisogna fare?
«Vincere l’orgoglio e perdonare».
(320. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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