Nel ventre di Gaza dove regna già l’ordine islamico

da Gaza

Cigolio di cancello, scintillio rosso che si spegne, sbarre d’acciaio che inghiottono tutti noi. La bionda soldatessa agita la mano: «Salutatemi l’inferno». Il drappello di giornalisti lascia Israele, si infila nel labirinto di cancelli, reti e cemento. Il tunnel per Gaza è appena oltre. L’ultimo passaggio poi, d’improvviso, tre volti anneriti e sbigottiti, tre mitra spianati e caricati. «Che c... ci fate qui?». La pattuglia israeliana già si immagina il nemico alle spalle, abbandona i sacchetti di sabbia, salta in piedi, affronta, armi alla mano, gli sperduti intrusi. «Qui si spara, chi vi manda per questa strada?». Lì, oltre i sacchetti di sabbia e le sbarre di ferro occhieggia il tunnel. Trecento metri di buio, fetore e disperazione. Il sergente urla alla radio, ci spinge fuori. «Se proprio volete passare, costeggiatelo. E occhi aperti».
Fuori è il bianco abbacinante del mezzogiorno, il sole a picco su brandelli di cemento, tappeti di vetro, bossoli consumati. Duecento metri di galleria, vociare sommesso dietro un muro grigio. Poi una voragine, una volta aperta, un tappeto esangue d’umanità abbandonata. Stanchezza avvilita, reclinata sul letto d’escrementi, coperte accartocciate, valigie accatastate. Chiamano, afferrano, tirano, invocano: «Signore, giornalisti, aiutateci, scrivete che siamo qui, non abbandonateci». Sono gli avanzi della vecchia nomenklatura. I più inutili. Gli ex armigeri di Fatah, gli ex duri della Sicurezza Preventiva. I più umili. Quelli senza passaggio e salvezza garantita. Gendarmi fuori tempo, condannati a marcire nel tanfo, a elemosinare compassione dal nemico. L’alternativa è una vita d’angoscia in una nuova Gaza senza troppa pietà per i loro irredimibili peccati. Gli uomini nascondono il volto, fissano il muro sbrecciato. Le donne interpretano il dolore. Una si solleva, avanza a quattro zampe. Una iena ferita abbrutita, spossata, scorata. «I capi ci hanno abbandonato, ma noi non marciremo tra il fuoco di Hamas e quello d’Israele, li inseguiremo fino a Ramallah, racconteremo la loro infamia».
Dietro i persecutori dei relitti si dimena il girone dell’estrema infamia. Sono i reietti tra i reietti. I «collaboratori», le spie d’Israele o, peggio ancora, i contrabbandieri dei vizi, i venditori di alcol, donne e sesso. Sono fuggiti dalle galere sventrate, dalle celle liberate. Reietti senza posto nell’Hamastan duraturo, trascinati dalla risacca a questo angiporto dello Stige. Ieri sono venuti a cercarli. Si è sparato. Gli israeliani hanno risposto dal tunnel. Tra la sabbia sono rimasti i cadaveri di due vendicatori. Stamattina è successo di nuovo. Tre carri Merkava israeliani sono avanzati 300 metri dentro Gaza. Bloccano i giustizieri, chiudono reietti e derelitti in una morsa di cemento e acciaio. In mezzo ci siamo anche noi. Circondati dal branco disperato, inquadrati dal cannone da 105mm, scacciati dal soldato in torretta. L’urlo è ancora lo stesso. «Indietro, indietro. Chi c... vi manda qui?». Mezz’ora e la torretta gira, il tank fa largo.
Il taxi precipita nel ventre di Gaza, tra le rovine di Beit Hanun e la strada per Jabalya, nel consueto, desolato, intrico di cemento marcescente. La città è la stessa, ma i volti incappucciati, i mitra spianati sono scomparsi. Agli incroci non più posti di blocco armati, ma studenti barbuti, cappellini verde Islam, giacche canarino. Regolano il traffico, impersonificano il nuovo ordine di Hamas. Il vero simbolo della vittoria è in via Jamat El Dowal. La polizia in divisa blu ha già assunto la barba d’ordinanza. Gira appollaiata sui furgoni razziati dentro la sede della Amnel Wikai, della famigerata Sicurezza Preventiva. «Con il sangue dei martiri e dei feriti - avvisa la scritta - abbiamo espugnato il covo degli scorpioni e dei serpenti». Ti aprono il cancello, ti scortano dentro. «Lì - indica il poliziotto barbuto - interrogavano e torturavano i nostri». Si ricorda che indossa la divisa, si corregge. «Lì torturavano i prigionieri di Hamas».
Quel che più colpisce sono le mura. Fuori dagli uffici e dai garage razziati le facciate sono linde, pulite, tinteggiate. Non con la brode di guerra, ma frontali appena macchiati da raffiche e rare vampate. Troppo poco per una battaglia, abbastanza per una resa concordata. Abdul, che in questa via ci abita, te lo racconta a denti stretti. «Macché vittoria, dentro saranno stati qualche decina e non hanno sparato un colpo». Risali a nord-ovest, lì i palazzi di Al Maqussi Tower raccontano un’altra storia. Mura annerite, portoni sfondati, fondamenta sopravvissute a cento chili di plastico. Dieci piani di razzie e di incendi. Mamma Suad e Shadi, il figlio ventiduenne, s’arrampicano tra le scale di quel verminaio di cemento, trascinano acqua e candele per la loro tana di cenere e detriti. Lei scuote la testa. Lui la segue. «Mio padre era nella sicurezza di Fatah, ma è morto cinque anni fa... Loro ripetevano: pagate per i suoi peccati... Hanno preso i mobili, hanno bruciato tutto». Ti porta giù, all’entrata. «A loro è andata peggio». Loro erano sette. Sono una macchia di crosta vermiglia. Sette fedelissimi di Mahder Miktat, il capo della sicurezza fuggito vivo da quest’inferno. Loro no. Shadi mostra il muro. Naim, il vecchio portinaio, raccoglie un bossolo.

Il dito disegna sette sagome a terra, sette crani squassati, sette rivoli di sangue fino a quella macchia incrostata. Shaim allarga le braccia, risale le scale. «Per loro è finita, per noi deve appena incominciare».
Gian Micalessin

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