Nell’arte contemporanea anche un falso può essere autentico

Doccia svedese sul mondo dell’arte contemporanea. La truffa più colossale che abbia mai coinvolto l’intero sistema - collezionisti, musei, case d’asta - è andata in scena a Stoccolma, dove si è scoperto che l’ex direttore del Moderna Museet, Pontus Hulten (uno dei nomi più accreditati a livello internazionale, curatore di grandi mostre e musei, scomparso nel 2006) aveva falsificato e venduto ben centodieci «Brillo Boxes» di Andy Warhol: una beffa da diversi milioni di euro. E ora tremano i collezionisti di mezzo mondo. Hulten ne conosceva di molti e importanti anche in Italia: se hanno comprato la celebre scatola nel 2001, anno della mega-truffa, il valore dell’oggetto oggi è zero.
L’episodio che ha un grande clamore mediatico - Hulten era considerato un intoccabile santone della critica - pone però un problema di merito sostanziale che l’arte contemporanea non riesce ancora a risolvere, ovvero la differenza tra la produzione di falsi e il perpetrare di una truffa. Due reati entrambi gravi, ma diversi.
Falsa, infatti, è un’opera che un artista non ha mai realizzato nella sua vita e che qualcuno ha imitato copiandone il più verosimilmente possibile stile e linguaggio. È impensabile che ci sia un altro capolavoro impressionista uguale a quello ospitato al Museo d’Orsay, mentre è molto probabile la presenza di decine di Monet o Renoir “dubbi”, soggetti non ascrivibili all’autore, copiati o ispirati a lui ma non autenticabili. La pittura e il disegno sono le uniche forme d’arte dove la distinzione tra vero e falso è inattaccabile, per il semplice motivo che quel quadro “tarocco” il pittore non l’ha mai eseguito. Ciò nonostante i falsari hanno avuto campo libero perché alla morte dell’artista non sempre eredi o esperti riescono (o vogliono) bocciare nuove opere disponibili sul mercato. Si calcola che se tutti i Picasso che ci sono in giro fossero autografi, lo spagnolo avrebbe dovuto vivere duecento anni lavorando 24 ore al giorno.
L’arte contemporanea, invece, ha imposto un altro sistema di moltiplicazione dei pani e dei pesci. Poiché il delegare ad altri è diventata prassi comune e l’artista si limita sostanzialmente a sovrintendere un progetto, non è più possibile stabilire con dati scientifici se si tratti di vero o patacca. Quante scatole di Merda d’artista di Piero Manzoni sono sicuramente sue? Non si sa. Possiamo fidarci del catalogo generale, compilato da un critico incorruttibile e iperfilologico? Difficile dirlo. Alighiero Boetti faceva realizzare i suoi arazzi in Afghanistan e spesso non andava neppure a controllare il numero effettivo degli esemplari prodotti. Sappiamo che ne ha licenziati a migliaia, eppure alcuni sono buoni e altri no, e il criterio decisionale non è chiarissimo. Dopo la sua morte ne sono saltati fuori a migliaia, ma non tutti hanno ricevuto l’indispensabile documento che ne certifichi il valore.
Certo, molto dipende da chi si presenta come legittimo proprietario: se è un mercante di terz’ordine gli fanno l’interrogatorio, se un guru come Pontus Hulten il dubbio non è contemplato. Invece le truffe più colossali nascondono spesso griffe prestigiose. Gallerie e case d’asta immettono sul mercato fotografie dalla tiratura dichiarata ma di cui è impossibile controllare il numero di esemplari realmente stampati. Chi ci garantisce che oltre alla serie di 15-20 del medesimo soggetto non ci siano altre copie in giro per il mondo, con numerazioni fittizie, quando la copia non si distingue in alcun modo dall’originale?
Stesso problema investe anche la scultura, con una non lieve differenza. È consuetudine ritenere pezzo unico una scultura fino a nove esemplari. Crescendo si passa al multiplo con conseguente deprezzamento. Ma le abbiamo mai viste tutte nove vicine? E non è possibile che la fonderia ne abbia prodotte ancora un paio, magari per arrotondare i guadagni visti? Se poi la scultura si trasforma in oggetto preconfezionato, dal Ready Made di Duchamp alle mensoline di Steinbach, non c’è nulla che possa distinguere il vero dal falso oltre alla buonafede e alla competenza filologica. In entrambi i casi dubitare è lecito.
Forse, per semplificare, converrebbe depenalizzare il reato di falso dall’arte contemporanea tanto risultano oscuri e viziati i meccanismi di autentificazione. Anni fa venne fuori lo scandalo dei quadri a pallini di Damien Hirst che alcuni assistenti avevano venduto senza autorizzazione del maestro, perché lui li pagava poco. Una vendetta dunque, ma nessuna differenza rispetto ai quadri “buoni” visto che a farli manualmente erano le stesse persone.

Chi paga le conseguenze di questi scandali sono i collezionisti che scelgono l’arte per status symbol e non per qualità, proprio come le signore che comprano le Vuitton tarocche sulla spiaggia, sperando che l’amica non se ne accorga. Inutile scandalizzarsi, l’arte non si sottrae alla logica dello shopping che governa la società dell’apparenza.

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