Nell’impegno contro l’Aids l’altra faccia di una star triste

D’accordo, ce n’era un’altra. Un’altra Liz Taylor, il suo contrappasso. L’attrice più bella del mondo, l’unica capace di sopravvivere ai propri eccessi e a quelli del suo tempo, era diventata una madrina di beneficenza con le stimmate giuste per essere credibile. «Recitare per me, oggi, sarebbe solo artificiale» disse alcuni anni fa a Los Angeles, sulla sedia a rotelle, mentre inaugurava un centro di ricerche all’Università della California. «Potrei starmene qui e accontentarmi, ma nessuno dovrebbe farlo. Vado in giro su di una carrozzella ma vado in giro».
Più di lei, girava il suo contrappasso: la diva che aveva cambiato missione, l’attrice che faticando aveva trovato nella lotta all’Aids la credibilità che le vicende personali avevano messo così tanto in bilico. Non solo il denaro. Certo, per fare un esempio, nell’ottobre del 2002 l’anello col grande smeraldo che Richard Burton le regalò nel ’62 per il loro fidanzamento è andato all’asta e altri 258mila dollari sono finiti all’«Elizabeth Taylor Aids Foundation», l’istituto che nel ’91 si era affiancato all’«American Foundation for Aids Research» che lei aveva fondato nel 1985. Quando era la stella che illuminava Hollywood ripeteva spesso questa battuta: «Mia madre diceva che quando sono nata ho tenuto gli occhi chiusi per una settimana. Ma appena li ho aperti, ho visto un anello di fidanzamento». Forse, tanti anni dopo, l’ostentazione del passato era diventata la sua ferita e col cilicio della solidarietà provava a cicatrizzarla. «Vedere la gente soffrire è tremendamente reale e nulla potrebbe esserlo di più. Molta gente non guarda perché fa star male e, se tutti fossero così, nessuno combinerebbe nulla».
In tutti questi anni - esattamente come hanno fatto per altre cause Jerry Lewis e Paul Newman - aveva raccolto quasi 250 milioni di dollari accompagnandoli nelle casse della lotta all’Aids con un silenzio sempre maggiore, sempre più sofferente. «Sono diventata una povera piccola vecchia» disse un giorno a casa sua, nella villa splendida e polverosa a Bel Air, vicino a Los Angeles. E quando arrivò sfigurata e claudicante a Milano per i Telegatti, con i suoi vicini in platea parlò più della sua fondazione che della carriera o dei matrimoni. Elizabeth Taylor era diventata il suo contrario. E nel piglio orgoglioso, nella lucidità quasi flaubertiana di questo sacrificio, i suoi occhi viola ritrovavano la loro luce, quella che faceva tremare il mondo. Anche quando Michael Jackson, il suo grande amico Jacko, finì sotto processo, lei fu una delle poche a spendere una parola per lui, senza difenderlo come si fa con i colpevoli. Semplicemente attestando il proprio affetto.
«Essere senza un compagno non vuol dire essere soli» ha detto. Pochi potevano capirlo meglio.

E in questa parabola, che è arrivata a compiersi proprio alla fine, c’è il senso della sua seconda vita. Oggi che la notizia della morte ha iniziato a fare il giro del mondo, qualcun’altro, anzi molti, si sentiranno meno soli specchiandosi nella luce diversa dei suoi ultimi occhi.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica