Nella "Chiesa rossa" la peggiore eresia è il dubbio

Poeti, filosofi, editori, romanzieri: la difficile sopravvivenza degli intellettuali non ortodossi. Nel saggio L'altronovecento i tormentati anni '50-'70 dei partiti comunisti

Nella "Chiesa rossa" la peggiore eresia è il dubbio

Senza voler portar fuori la mummia del comunismo dal Museo della Storia delle Idee (con buona pace di coloro che tentano di rianimarla ogni giorno con filosofica respirazione bocca a bocca, ad esempio Badiou e Zizek, per i quali «alla fine del capitalismo ci sarebbe il comunismo») e senza voler armare la mente degli epigoni dell’anticomunismo con nozioni in fondo inutili (visto che il nemico è sottoterra), possiamo ben dire che L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Volume II (a cura di Pier Paolo Poggio, Jaca Book, pagg. 800, euro 40) è una lettura appassionante per gli studiosi del «secolo breve», tragedie comprese.
Questa seconda raccolta di saggi (su cinque previste) inizia dove si era fermata la prima, dal 1945, e si spinge al 1989, fino a comprendere pensatori ancora oggi molto utili, come Castoriadis (di cui raccomandiamo Finestra sul caos, Eleuthera), Debord, Foucault, Deleuze, Ellul (che Jaca Book sta ripubblicando) e il malinconico Ivan Illich (ma perché nessuno ristampa Genere e sesso?). Intento e cornice dell’operazione, per riprendere le parole di Poggio, è considerare gli effetti culturali di quella guerra che «vide schierarsi sullo stesso fronte la democrazia capitalistica occidentale e l’URSS di Stalin contro gli Stati fascisti a guida nazista. Rispetto agli schemi, il treno della storia compì uno scarto.
Nelle conseguenze di questo «scarto» prosperarono e patirono diversi intellettuali di cui il libro traccia biografia e pensiero: parecchi erano occidentali, sebbene la situazione pareva «essere bloccata e senza spazi di libertà». Traduciamo: militare a sinistra tra i Cinquanta e i Settanta, come diceva Cioran, significava essere soggetti a scomuniche e ipso facto, a meno di non obbedire in tutto, condannarsi a un destino di eresia. Se in Unione Sovietica si finiva nei gulag (si veda il capitolo di Andrea Panaccione) e se in Francia arrivò infine il Sessantotto a confondere le acque e le teste (per il maggio ’68 si parlò di «rivoluzione», «comune», «carnevale» e «psicodramma»), in Italia - dove permaneva il più grande partito comunista d’Occidente, con 2,5 milioni di iscritti - Togliatti vegliava sulla nazionalizzazione del pensiero di Gramsci, costruendo «un’egemonia culturale di corto respiro». Fino a quando, tra Mauro Rostagno, Lorenzo Milani e l’antipsichiatria di R. D. Laing e David Cooper, non ci si ritrovò «in pochi e in segreto» - come racconta Pietro Clemente - «alla fine del ’68 ad ascoltare a Cagliari Giangiacomo Feltrinelli che ci suggeriva di avviare una via “guevarista” cominciando a costruire piccoli gruppi eversivi». Di lì agli anni di piombo fu tutta un volata in discesa: di fatto, lo spartiacque storico-critico di L’altronovecento sembra essere più il ’68 che la primavera di Praga e la crisi dello stalinismo. Come racconta altrove Paul Veyne, infatti, alla fine dei Cinquanta dubbi e collere nel Partito erano ancora sotto controllo. Era stato fabbricato persino un nuovo verbo: quando si temeva di perdere la fede, «si andava a farsi Althusser», che voleva dire «andare a farsi falsamente rassicurare, senza crederci». Lo stesso Veyne non esitò ad accostare marxismo e cristianesimo, entrambi seducenti per via del loro «calore individualizzante» e del loro volere «il bene degli umili», e non certo per il coté millenarista. Tra l’altro, Veyne e il nostro Paolo Volponi sarebbero potuti comparire in un volume come questo, dove si vorrebbe pure un capitolo dedicato a Manès Sperber.
Ma è mancanza rimediata dal recupero di Franco Fortini, dell’ormai poco frequentato Castoriadis, di Danilo Montaldi e di Debord, spesso citato ma poco «vissuto» dal popolo di internet. Fortini - poeta del quale Versi scelti 1939-1989, che Einaudi dovrebbe rimettere in commercio, testimonia tutto il peso specifico; autore di Verifica dei poteri, uno dei rari testi di riferimento per una critica «non eclettica e non agnostica»; traduttore, tra l’altro, di Statura umana di C.F. Ramuz, marginale quanto obiettiva riflessione sui «sovieti» a firma del grande scrittore romando - fu forse il comunista più doloroso del nostro secondo Novecento (ancor più doloroso di Calvino e Pasolini, tra le cui superficiali e disattente ortodossie si ritrovò schiacciato) e il capitolo che gli dedica Daniele Balicco è tra i più sentiti del volume. Montaldi, invece, con i suoi Autobiografie della leggera e Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo» (ora per Donzelli), è il precursore (senza dimenticare Rocco Scotellaro e Gianni Celati) della letteratura «socio-antropologica» di oggi, da Marco Ciriello (Tutti i nomi dell’estate) alla collana «Contromano» di Laterza. Una delle poche eredità di quegli anni ancora valide.
Guy Debord (accanto al quale Mario Pezzella cita Don DeLillo), invece, fu il vero punto di superamento (disperato) del comunismo: negli anni Ottanta le leggi sia del capitalismo che del comunismo, «stravolte da intese di nuovo genere», si misero «a dormire», la società dello spettacolo si realizzò compiutamente, e Debord si suicidò. Era il 1994.

Dieci anni prima Foucault, cui Mauro Bertani dedica un intenso capitolo, era morto (volontariamente?) di Aids. Baudrillard parlò a questo proposito di «olocausto di un’intera generazione di intellettuali» che a differenza di Sartre non morirono pomposamente, ma scomparvero per implosione. Appunto, come il comunismo.

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