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Nella giungla birmana in mezzo al popolo delle gambe perdute

Nei campi profughi si fabbricano senza sosta protesi

Nella giungla birmana in mezzo al popolo delle gambe perdute

da Kler Law Seh (Birmania orientale)

C’erano una volta. C’erano ed erano come gli altri. Te lo raccontano le loro gambe. Sono sparse qui e là. Gambe di legno le chiamavano un tempo. Come quella di Ackab, forsennato cacciatore di Moby Dick. Il mare qui non c’è. A Kler Law Seh ci sono la guerra e questa prepotente, smisurata giungla verde. Sotto le sue foglie di banano, tra una capanna e una panca di bambù riposano le loro gambe. Il sergente Hti Ku l’ha lasciata con il kalashnikov accanto allo strapuntino umido dove ha passato la notte di pioggia e monsone, s’è tirato a forza di braccia sull’impiantito di canna, s’è seduto alla radio, armeggia con la manopola, rimescola frequenze tra le dita, insegue le coordinate di una pattuglia perduta qualche chilometro di boscaglia più avanti. Della sua gamba per ora manco si ricorda. Il suo soldato Jo Ky Aw Poi ci sgambetta sopra mentre corre all’adunata. Non zoppica neanche più, se la tira dietro in battaglia e nella vita. Senza farci troppo conto, troppo caso.
Per Toh Ta non è così. Ha 14 anni, ancora quasi non ci crede. Lo vedi quando se la palpa tra le dita. Accarezza la rotula, tasta l’ultimo spezzoncino di tibia, affonda le dita nell’estremo batuffolo di carne. Per un attimo s’illude, spera in un brutto sogno, ma anche stavolta, un anno e un mese dopo, è tutto vero. Stringe i denti, guarda altrove, mentre il dito incrocia il gelo di quella protesi crudele. Questione d’abitudine. L’elettricista Roe Khee ci scherza sopra. La guarda ripresa dalla telecamera, sbotta in una risata: «Quella è la mia gamba, ma io dove sono?». Lei non se n’è andata troppo lontana. È ancora lì appoggiata sul tavolo dove l’ha abbandonata per armeggiare con stagno e saldatore. «Me ne hanno promesso una nuova, ma per ora questa va ancora bene», ammette soddisfatto, si fascia lo spuntone di femore, l’infila nel cosciale di panno, stringe le cinghie di cuoio. Non sono di più legno. Son tutte identiche, tutte uguali, tutte figlie dello stesso stampo, del medesimo impasto di plastica e resina artificiale. Cambia solo la misura. Le sfornano a ritmi industriali nei campi profughi oltre la frontiera e qui in questo lembo di Birmania orientale diventano più comuni che un paio di mocassini.
Il perché fai presto a capirlo. Naw K Paw Htoo, 36 anni, è arrivata in questo santuario della guerriglia karen due mesi fa. S’è lasciata dietro il labirinto mortale di Ayo Taung, Wai Kyo, Maw Pwe Kee, un reticolo di villaggi in questa regione di Dooplaya conteso tra la guerriglia karen e le unità dell’esercito birmano. I militari del Tatmadaw, l’armata di Rangoon, ci arrivò il 3 giugno scorso. Il comandante radunò i capi villaggio. Li chiamò per nome, a uno a uno, raccontando di quel gruppo di karen che la notte precedente aveva attaccato i suoi uomini. Tirò fuori una mina anti-uomo. «Non m’avete ascoltato, non avete detto ai vostri amici di tenersi alla larga e allora ci dovrò pensare io, di queste ne ho 500 - disse - e da domani finiranno nei vostri campi e nei vostri sentieri».
Da quel giorno in avanti in quel reticolo di villaggi si ripete la storia di Toh Ta. Lei un anno e un mese fa si era affacciata all’orto di casa. Ce l’aveva mandata la madre a raccogliere foglie di zucca. Come ogni mattina. La notte c’erano passati i soldati e mamma non lo sapeva. La gamba di Toh Ta restò lì, poltiglia di carne e ossa in una pozzanghera di sangue. E capitò ogni mattina, dal 3 giugno in poi, anche ad Ayo Taung, Way Kyo, Maw Pwe Kee.
Naw Paw Htoo c’è appena fuggita, non vuole più ricordare. Ha lasciato il mondo delle gambe mozzate per quello delle protesi di plastica e resina. Son due mondi complementari. Le aree nere dove Tatmadaw ha mano libera nel piantare ordigni, bruciare villaggi, sparare sui civili karen e sulle altre minoranze etniche in rivolta. Le aree grigie della Birmania orientale, non lontano dal confine thailandese dove, negli anni, si sono ammassati un milione e mezzo di sfollati. Chi non ci ha rimesso una gamba ha perso la casa, la terra, la famiglia, i propri cari. Altre 150mila anime perdute vivono ammassate nei campi profughi, appena oltre il confine thailandese. Dietro si son lasciati tremila villaggi bruciati, distrutti, saccheggiati dalla soldataglia di Tatmadaw. Quello di Ma Tha Who, 42 anni, era a quattro giorni di marcia da qui. Quando ancora esisteva si chiamava Ko Ko. «Sono arrivati una mattina e hanno cominciato ad arrestare la gente, bruciare le case. Io non ho fatto in tempo a capire cosa stesse succedendo, un soldato birmano mi ha preso, mi ha infilato sulla testa un sacco di plastica, lo ha stretto fino a quando sono svenuto. Quando mi sono risvegliato le case bruciavano, due miei amici erano già morti». Sedici di quei villaggi li ha ritrovati due mesi fa l’occhio di un satellite. Buchi neri nel verde della giungla.

Tizzoni di guerra sulla strada delle gambe mozzate.

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