«Nella mia prima commedia racconto la famiglia con gli occhi delle donne»

«Debutto nel genere con La cena per farli conoscere. Con Abatantuono ci sono Francesca Neri, Ines Sastre, Violante Placido e Vanessa Incontrada divenute amiche sul set»

da Roma

Caro Pupi Avati, sta già montando il suo nuovo film, La cena per farli conoscere?
«Sì e sono felicissimo, perché è il primo film che mi somiglia totalmente. È venuto come lo volevo io. Sa com’è, nel cinema. Intoppi, rassegnazioni. Stavolta la fortuna ha fatto sì che i conti tornassero».
Il 2 febbraio sarà nei cinema. E il risultato?
«È la mia prima commedia. Girata con gli occhi delle donne. L’avanzare nell’età ha fatto sì che il mio sguardo diventasse più femminile, più largo. L’angolo, nel maschio più ristretto, stavolta si è ampliato».
Naturalmente, non sta almodovareggiando, visto che quando si parla di sentimenti al femminile, i più pensano subito al regista spagnolo. Semmai, lei è più amante di Scola, di Monicelli, no?
«Apprezzo molto il riferimento a Scola. I film di Almodóvar non mi attirano. Ho un mio stile personale, che stavolta ha riunito sul set quattro donne, non bambine. Le quali, a dispetto di ogni previsione sulle liti per avere più scene, o il trucco più accurato, o vestiti più belli, sono diventate amiche, complici, sorelle. Proprio come accade nel film».
Sveliamo la quaterna e, già che ci siamo, pure la trama?
«Al centro della mia sceneggiatura ci sono tre sorelle, interpretate da Vanessa Incontrada, Violante Placido e Ines Sastre. Hanno madri diverse, ma un unico padre, Diego Abatantuono, dalle sue donne chiamato “lo stramaledetto da Dio”. Il tipico padre assente, un attore di soap opera, che dopo un disastroso intervento di chirurgia estetica, perde il lavoro e finge il suicidio. Le figlie accorrono a Roma, la Incontrada da Madrid e la Sastre da Parigi, all’inizio ostili, in quell’emergenza familiare. Poi scoprono la sorellanza e decidono di aiutare il padre. Presentandogli un’intellettuale, Francesca Neri, appena abbandonata dal marito».
È la prima volta che dirige Francesca Neri, qui in un ruolo da svampita radical-chic. Com’è andata?
«Seguo la regola aurea di scrivere i ruoli su misura, come abiti. E sono fiero della scelta di Francesca, sebbene si tratti d’una sconsideratezza. Sia da parte mia che da parte sua. All’inizio, s’era offesa. “Perché dovrei farla io, la parte della più vecchia?”. Invece, è una delle scoperte più apprezzate, nel film. Soprattutto quando arriva alla cena, molto alterata dagli “aiuti” chimici e alcolici. Disfatta dall’abbandono del marito, che le ha preferito una molto più giovane».
Nei suoi film torna spesso il tema del soccombente. In una società che corre per vincere, che cosa mandano a dire i suoi diletti perdenti?
«Che la sofferenza transitoria è il modo migliore per arrivare alla conoscenza di sé. Il modello del vincente m’ispira diffidenza. Infatti, quando tengo qualche conferenza, spiego che il miglior sistema comunicativo è esordire con una dichiarazione di debolezza».
Gli sconfitti, secondo lei, ispirano fiducia?
«Certo: confessando d’essere perdenti, si bypassano tutti i preliminari, si entra in confidenza. Io sono un esperto, in qualunque ambito ho preso bei ceffoni. E ringrazio le mie sfighe, una per una».
La cena per farli conoscere è dunque un film autobiografico?
«Certo. Sono stato un padre assente, negli anni in cui i miei due figli avevano più bisogno di me. Senza, però, le divagazioni che, qui, si concede il protagonista. Soltanto ora, con il mio nipotino di sei anni, riscopro sentimenti paterni. E poi, da giovane avevo il complesso d’inferiorità. Senza di esso, non sarei diventato il piccolo osservatore che sono. Ho un intero magazzino di profili umani. È importante, per me che sono un calligrafico».
Si danno spallate potenti alla famiglia, in crisi più che mai. Lei, invece, anche stavolta dimostra di credere in questa istituzione.
«Sarà perché, avendo perso mio padre da piccolo, sento una gran nostalgia della figura paterna e credo si debba puntare a rimanere fedeli ai ruoli della famiglia tradizionale. Il padre, insomma, non deve fare “il mammo”. Qui Abatantuono è perfetto, perché scopre il suo senso paterno, soltanto quando si trova in difficoltà. E si aggrappa alle figlie.

Denunciando d’aver fallito, a non svolgere il suo ruolo di padre».
Dirigere quattro professioniste di livello sarà stata un’avventura: che cosa ha imparato?
«Che si può confidare negli altri. E si può credere nei rapporti umani».

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