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"Nella mia seconda vita vado a caccia di nuovi Picasso"

Iniziò l'avventura imprenditoriale grazie a Kandinskij: "Mi ha fatto scoprire i colori". "Oggi l'Italia non sa guardare al futuro"

"Nella mia seconda vita vado a caccia di nuovi Picasso"

Luciano Benetton è un concentrato di energia. Parlano gli occhi, d'un azzurro penetrante, pronti ad accendersi quando illustra i progetti a cui sta lavorando. È il capitano che ha consegnato le chiavi dell'azienda ma ancora vi appartiene: siede nel cda di Edizione, la cassaforte di famiglia ed è presidente di Fondazione Benetton Studi Ricerche.

Ha sempre un piede nel futuro, secondo un'attitudine che è stata la chiave del successo. Non per nulla, arriva (puntualissimo) all'appuntamento nella trevigiana Fabrica, il catalizzatore di creativi nella galassia Benetton, alla guida di una Tesla, parcheggiata nell'area dipendenti e acquistata in leasing. «Sono i primi modelli, non possono che migliorare. Aspetto il prossimo, quindi è meglio un leasing», spiega il capostipite dell'impero di Ponzano, primo dei 4 fratelli che cavalcarono l'onda del successo del maglioncino colorato, democratico, accessibile a tutti. Nell'operosa Treviso, tutti assieme, affrontarono la foresta sconosciuta dell'imprenditoria italiana, partendo dal nulla. Luciano, primogenito di Leone, noleggiatore di automobili e biciclette, è rimasto orfano a 10 anni e il tuffo nel mondo del lavoro è stato immediato. È partito come commesso in un negozio di stoffe e nel frattempo creava un laboratorio tessile. Che cresceva coinvolgendo l'intera famiglia, compresi i fratelli più piccoli, fino alla creazione di un marchio diventato famoso in tutto il mondo grazie anche alla divisione netta di ruoli: Luciano il creativo e Gilberto l'uomo dei numeri.

Siete partiti negli anni del miracolo economico, dell'energia e dell'ottimismo. Oggi è tutto più grigio

«Un tempo, negli anni Sessanta-Settanta, il campo era più piccolo. La competizione si faceva a livello nazionale. Poi abbiamo capito che l'offerta dei mercati era sempre più ampia, quindi abbiamo guardato oltre i confini. Diciamo che lavorando con la moda è stato un gioco abbastanza facile».

Ora invece?

«La moda è nata e si è sviluppava in Europa ma oggi si produce tanto in Asia. E comunque l'interesse per la moda è diminuito. Semmai a crescere è quello per i viaggi».

Proprio da questa passione, nasce l'ultimo progetto dedicato all'arte contemporanea, Imago Mundi. In dieci anni ha coinvolto più di ventimila artisti provenienti da 140 Paesi producendo 140 collezioni. Com'è nata l'idea?

«Una decina d'anni fa ero in Sudamerica e mi erano piaciute le opere di un artista. Gli chiesi un biglietto da visita e lui mi fece avere una tela di 10 x 12 centimetri. Mi piacque il gesto, quella forma di gentilezza. Non era un biglietto da visita qualunque, non avrei mai avuto il coraggio di gettarlo nel cestino. Per la verità ne arrivarono altri. Mi misi in moto. Non potevo mettere tutto questo in soffitta. Pensai a un catalogo e coinvolsi Skira. Quindi iniziammo a produrre cataloghi in proprio, a creare un sito, mostre di tele di questo formato».

Il 29 agosto, nel Palazzo Loredan di Venezia, avete inaugurato «Great and north», una mostra dedicata all'arte del Nord America: 700 artisti raccontano le culture e i paesaggi dei popoli che vivono tra il Canada e gli Stati Uniti. Come vengono selezionati?

«Mi affido a specialisti nella scelta dei professionisti da coinvolgere. E soprattutto non esprimo preferenze. Non voglio che si creino tensioni fra gli artisti».

Alcuni lavori provengono da Paesi o popolazioni off limits

«È proprio il caso di questa mostra, o almeno in parte. Pensi che per incontrare gli artisti, la curatrice ha dovuto prendere gli aerei dei cacciatori di foche, gli unici mezzi per raggiungere certi luoghi estremi del Nord America».

Con Imago Mundi, lancia la formula del collezionista committente di un progetto no profit: agli artisti offrite cataloghi, mostre, contatti. Però c'è chi critica il fatto che l'artista non venga remunerato. Cosa replica?

«Prima di tutto, non è propriamente no profit. L'operazione è impegnativa da un punto di vista finanziario, me ne occupo io».

Però l'opera d'arte non viene quotata, comprese quelle di Christo o Zaha Hadid...

«Però creiamo i presupposti di un mercato d'arte. Ci sono aree del mondo, come l'Europa, dove gli artisti possono contare su galleristi, spazi espositivi, infrastrutture. Ma sono tanti i Paesi che non dispongono di nulla. Noi offriamo visibilità, opportunità, inseriamo nomi sconosciuti in un contesto di artisti di richiamo. Sarà il mercato poi a dare le risposte, a quotare. Spero che fra i mille artisti che stiamo portando alla ribalta usciranno dei Picasso».

Lei ha contribuito a colorare il mondo. Trova più colore in questa sua seconda vita professionale, da mecenate e promotore d'arte o in quella precedente da imprenditore puro?

«Umanamente c'è ancora più colore in quest'ultima, non v'è dubbio. Gran parte dei contatti precedenti dura tutt'oggi, è stata un'esperienza gratificante».

Fra le relazioni tutt'ora vive, c'è quella con il fotografo Oliviero Toscani, autore di decine di campagne pubblicitarie dell'azienda.

«Certo. Mi manda anche il suo vino e olio».

Nel frattempo anche lei è diventato produttore di vino

«Mi sono reso conto del vino a scoppio ritardato. C'erano delle viti accanto al mio ufficio, nella Villa Minelli. Tenute benissimo. Pensavo che si ricavasse vino per la mensa. Mi informai, e mi spiegarono che no, in mensa non si beve e che quell'uva si vendeva. Feci fare un'indagine per capire che tipo di vino avremmo potuto produrre. L'esito era positivo. Così partì anche quella avventura».

Cosa troviamo dell'esperienza Benetton in Imago Mundi?

«Imago Mundi si realizza grazie ai rapporti che ho costruito nella mia precedente vita professionale. Senza certi contatti non sarei mai potuto arrivare in alcuni luoghi».

Per esempio?

«Nella Corea del Nord. Ci andai partendo da Pechino. All'epoca ero Presidente Benetton quindi fu più semplice ottenere un visto: da parte loro potevano esserci interessi commerciali».

Impressioni?

«Mi imbattei in un Paese molto arretrato, fermamente deciso a non collaborare con la Corea del Sud. Da un punto di vista economico, risolverebbero il problema in un giorno se annullassero la cortina di ferro. Immaginiamo cosa potrebbe nascere dalla fusione tra conoscenza dei mercati, tecnologia avanzata della Corea del Sud con l'ampia disponibilità di persone della Corea del Nord. Un Paese unificato sarebbe così potente da disturbare, però, la Cina».

Il suo obiettivo è proprio quello di far dialogare diverse culture.

«In febbraio abbiamo partecipato alla Biennale del Mediterraneo, a Palermo. Sono venuti ambasciatori e sindaci di varie città, hanno aderito 21 Paesi. Lì, senza i freni e le inibizioni che si creano nel mondo della politica, tutti dialogavano con normalità, gli angoli si sono smussati. La cultura favorisce proprio questo: il dialogo. È la ragione per cui credo in questo progetto».

Prossimi passi?

«Presto verrà inaugurato un centro espositivo a Treviso, proprio davanti al Duomo, vicino allo stabile di Edizione. Abbiamo restaurato un antico carcere asburgico. Sarà la sede di Imago Mundi, creeremo mostre, laboratori per giovani, collaboreremo con le scuole. Le mostre tradizionali sono molto laboriose. Pensiamo a formule più snelle. I giovani si affidano a nuovi strumenti, anche le mostre devono innovarsi».

A proposito di giovani. Quando scoprì la passione per il colore?

«Scoprii l'interesse alla fine degli anni Cinquanta, tutto partì con Kandiskij. La mostra di quel genio del colore aveva messo qualcosa dentro di me. Ho sempre considerato l'arte anzitutto come abbinamento armonioso di tinte diverse, poi notai che la gente si soffermava sugli abbinamenti cromatici e si informava su dove era stato acquistato quel determinato indumento con quel determinato colore. Capii che potevamo partire da lì».

Era un adolescente quando creò il primo laboratorio Benetton. Ora vi sono trentenni che vivono con papà e mamma

«La colpa è dei genitori. Non mi piace l'atteggiamento di difesa dei figli. Andrebbe pensato un rapporto più costruttivo. È inutile nascondere le difficoltà, semmai andrebbero messe in evidenza, bisognerebbe farle nascere in case anziché negarle. La famiglia è l'ambito giusto dove allenare un figlio ad affrontare i problemi. Il mondo esterno è più aggressivo. Secondo me i ragazzi andrebbero allenati anche nella gestione del denaro».

Ha qualche idea?

«Perché non affidare a un figlio la gestione del budget di famiglia? Potrebbe esercitarsi a controllare le entrate e le uscite, suggerendo idee gestionali».

Tutte cose che lei suggerisce ai figli per i nipoti?

«No no, io ne sto fuori. Non voglio interferire».

Pare che anche i suoi figli abbiano optato per una linea educativa non proprio morbida.

«Credo di sì. Un nipote è appena tornato dal Nepal. È andato con alcune associazioni di volontari, so che i ragazzi devono arrangiarsi a fare tutto, a mangiare quel che c'è. Devono sapere sopravvivere, insomma».

Questi allenamenti e rodaggi, lei li fece già in Italia. Cosa pensa quando la mente va agli anni di gioventù?

«Ora tanti ragazzi, i miei nipoti compresi, vanno a studiare all'estero poco più che bambini, prestissimo fanno viaggi importanti coi genitori. Io ero un ragazzo di campagna. All'epoca non esisteva una serie di cose. Dovevamo far girare il cervello per cercare e scoprire, nessuno ci proponeva nulla, nessuno stimolo. Oggi i ragazzi si misurano con tante opportunità. Però insisto: noi eravamo più allenati di loro a scovare, a pensare e ad applicare».

Lei è un appassionato di viaggi. A un certo punto ha deciso di fare il giro del mondo a bordo della mitica barca Tribù

«Ho sempre viaggiato tanto. Viaggi di lavoro, però, legati alla concretezza degli affari. Così nel 2006 iniziai il viaggio del mondo, lo terminai nel 2012. Un'esperienza indimenticabile. Arrivare a Buenos Aires, a New York o a Chicago in barca è un qualcosa di unico, senti che le città di accolgono, entri dalla porta principale, vai direttamente nel loro cuore».

E l'azienda nel frattempo? Sei anni sono lunghi.

«Ritornavo sempre anche a Treviso, facevo un po' di barca e poi trasferimenti interni, e annessi viaggi d'affari».

Qualche inghippo?

«Per la verità pochi problemi e tutti risolvibili. Nessun incidente insomma. Purtroppo mi rimane il rammarico di non essere riuscito ad andare da San Pietroburgo a Mosca. Era possibile in teoria, ma di fatto chiudevano i ponti il fine settimana, includendovi anche il venerdì. Poi interrompevano per eccesso di caldo, o altro. Era tutto così complicato che rinunciammo».

Come vede l'Italia di oggi?

«È un Paese con tanta storia e tradizione, siamo uno di quei popoli che ha avuto successo, molti anni fa, diciamo pure cinque secoli fa. Adesso, però, di questo abusiamo. Dovremmo guardare di più al futuro. Quando leggi che a Ischia sono state presentate 27mila pratiche di condono, capisci che qualcosa non funziona. Ci sono attitudini che vanno corrette. Il tutto è frutto di sessant'anni di cattiva gestione? Mettiamoci una pezza e risolviamo il problema, andiamo avanti».

Lei è legatissimo alla sua Treviso. Ma in quale altro luogo si sentirebbe a casa?

«Nell'oceano Pacifico. Mi piace quel clima, e la natura: così semplice. Così normale.

Ecco se proprio dovessi lasciare Treviso, andrei da quelle parti».

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