Cultura e Spettacoli

Nelle borgate di Luchetti la famiglia resta l’ancora di salvezza

CannesPrimo e unico film italiano in concorso al Festival di Cannes, in una giornata dove a imporsi sono state quantitavamente e qualititativamente le sei ore del notevole Carlos di Olivier Assayas, La nostra vita di Daniele Luchetti è stato accolto dalla stampa con un timido applauso per la confezione dignitosa e per i temi: lavoro, sfruttamento, immigrazione, lotta di classe. Ma anche senso della famiglia.
Innanzitutto il lavoro, sul quale si fonda - dice la Costituzione - la Repubblica Italiana. Ma Cinecittà del lavoro non s’occupa, se i personaggi non sono carabinieri, poliziotti, medici, parroci, puttane... Campi e fabbriche, cantieri e uffici raramente sono sfondo di alacrità e spesso sono scena d’intrighi d’altro genere. Succedeva così anche quando la Costituzione era giovane: disoccupati i personaggi principali di Ladri di biciclette e di Roma ore 11, pensionato quello di Umberto D; se le mondine di Riso amaro si rompevano la schiena sulle pianticelle di riso, era per mostrar meglio le cosce.
Oggi il lavoro visto al cinema è quasi sempre di non italiani. O di italiani poco brillanti. Luchetti invece pone il lavoro e il denaro al centro della vicenda, mostrando vite di adulti qualsiasi, come il capomastro di Elio Germano. È sposato, padre di due bambini e assiduamente prolifico, visto che la moglie (Isabella Ragonese) attende il terzo. Peccato che, per far capire che si amano, nei primi dieci minuti i due si comportino come per varare il quarto. Invece lei muore del parto del terzo. E il marito si trova con quest’ultimo, neonato, e due altri che vanno appena a scuola. Il dolore per l’improvvisa vedovanza si muta in astio. Così, approfittando di un morto in cantiere (subito sepolto nella tromba dell’ascensore in costruzione), il nostro capomastro si apre col ricatto la via dell’imprenditoria. Ma dovrà finire alla svelta una casa con muratori improvvisati. E alla scadenza si troverà in difficoltà...
Più La nostra vita avanza, più la competizione sociale diventa pretesto per proporre la famiglia come alternativa all’inaridimento. Anche se Luchetti non prende la via giovanilistica scelta da D’Alatri nel recente Sul mare, in tutto il suo film nessun sindacalista. La coscienza civica dei personaggi latita: non sono cittadini, sono consumatori o sono decisi a diventarlo. Così il nostro capomastro placa il lutto comprando tv e play-station per i figlioletti.
La riduzione della democrazia a sinonimo di liberalismo è reso bene dalla sceneggiatura di Sandro Petraglia, Stefano Rulli e Luchetti stesso. Forse è quest’ultimo ad aver voluto il finale hollywoodiano dove i denari sfumano e i sentimenti risorgono... Difficile crederci, ma nei momenti di crisi il cinema, anche quello impegnato, torna a fabbricare sogni e chimere. E non è poi un male.
Ambientato in una Roma periferica, di prati che cedono tuttora al cemento, La nostra vita evoca anche i temi obbligati del politicamente corretto, inserendo senza una vera ragione il diversamente abile (lo spacciatore, interpretato da Luca Zingaretti) e la diversamente magra (la sua compagna, interpretata da Awa Ly). Per Luchetti, il suo film «non ha una tesi politica», tanto rispettare gli stereotipi del politicamente corretto gli pare ovvio.

Improbabile un premio del Festival domenica prossima, probabile un dignitoso incasso domani nei cinema italiani.

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