Valerio Zecchini
da Kuching
Kuching, capitale del Sarawak nel Borneo malese, è una città unica e affascinante, incantevole e intrigante, ma i suoi abitanti sembrano non rendersene conto. Come gli abitanti di tutte le altre città del mondo, belle o brutte che siano, sono persi nelle beghe, nelle brighe e nella monotonia del loro quotidiano. Ma anche il viaggiatore meno accorto ci mette poco a realizzare che si trova in un posto speciale.
La prima cosa che salta agli occhi è che questa è una città «a tema». Kuching in malese significa gatto, ma il nome ha la sua origine nell’abbreviazione di Matakuching, un frutto qui molto diffuso,usato anche per fare una bevanda dolcissima. Dopo l’indipendenza dall’Inghilterra (1957) e l’annessione del Sarawak alla Malesia come Stato federale (1963) il governo locale ha deciso di trarre vantaggio da questo nome atipico, finché il primo agosto 1988 Kuching fu ufficialmente proclamata «città del gatto». Oggi nelle tre piazze principali sorgono enormi statue di felini che salutano con la zampa destra alzata, un’altra si trova all’entrata della città e anche nei parchi pubblici si trovano sculture più piccole (ma a dire il vero più belle)di gatti. Persino negli acquari abbondano i pesci–gatto. Questa apologia del simpatico animale domestico trova però la sua apoteosi nel «Museo del gatto», fondato nel 1993.
Il museo ospita un «centro di informazione del gatto», vuole essere il luogo d’incontro per club di amanti del gatto da tutto il mondo, nonché struttura per congressi, seminari e conferenze su qualsiasi cosa che riguardi il nobile felino. Il museo vero e proprio conta una collezione di oltre 2000 manufatti provenienti da ogni parte del globo: sculture e statue, quadri e foto, oggetti in porcellana, vetro, legno – dall’antico Egitto a Garfield, Felix e Silvestro. Originalissime (e anche un po’ impressionanti) le foto di un artista giapponese il quale riesce a ritrarre gatti in costume d’epoca che interpretano scene da I tre moschettieri, oppure in azione vestiti da Batman o Superman, o ancora gatti samurai o travestiti da nobili del settecento francese. Il gatto più raro del mondo, il Felis Badia, si può trovare solo nel Borneo, e qui ce n’è uno imbalsamato, in una grande teca che riproduce il suo ambiente naturale. Secondo i cinesi, sempre molto superstiziosi, il gatto è un animale che porta fortuna, per i malesi invece esso è dotato di poteri soprannaturali.
Kuching però non è soltanto la mecca del gattofilo, o gattolico che dir si voglia. Il lungofiume (riverfront) è un’altra delle principali attrattive della città, specialmente di notte, quando una sapiente illuminazione permette di ammirare un romantico panorama da fiaba su entrambe le sponde, su cui svettano l’Astana, il palazzo del leggendario Rajah bianco James Brooke, protagonista della saga di Emilio Salgari, la spagnoleggiante fortezza Margherita e l’imponente edificio del parlamento locale. Questo fiume, il Sarawak, e’ il più grande del Borneo, ma la regione è ricca di tanti altri fiumi che ne hanno definito la storia, la demografia e l’identità: infatti, chi controllava le foci dei fiumi controllava i commerci e quindi deteneva il potere politico. L’enorme quantità di pioggia che cade sul Borneo (la terza isola più grande del pianeta) alimenta uno dei più vasti ecosistemi a foresta tropicale del mondo, abitato dalle bestie più singolari e inquietanti, come lo hornbill, uccello dal doppio becco, o la scimmia con la proboscide.
Il grande botanico italiano Odoardo Beccari, come vedremo una delle fonti di Salgari, fu ospite del Rajah bianco nel 1857, e dal suo soggiorno e dai suoi studi trasse il libro Nelle foreste del Borneo. Viaggi e ricerche di un naturalista; a pagina cinque dice: «Non ho mai visto da nessuna parte foreste vergini così ricche, così varie, e peculiari nella loro flora come in prossimità di Kuching». Tutta quest’acqua e questa pioggia hanno probabilmente avuto la loro importanza nel determinare la conformazione fisica dei nativi, i Dayak, discendenti dei famigerati tagliatori di teste: essi hanno spesso la parvenza di creature palmipedi, di elfi semi-anfibi. Oltre ai Dayak, la popolazione è composta dalla maggioranza malese-musulmana, dalla minoranza cinese e da una piccola comunità di occidentali, prevalentemente anglosassoni.
A questo già variegato panorama umano c’è da aggiungere il flusso turistico ininterrotto dei neofricchettoni nordeuropei, detti anche backpackers; importati direttamente dai centri sociali di Berlino o di Copenaghen, vanno a stipare i budget hotels e gli ostelli e sono un gruppo sociale omogeneo e fortemente stereotipato, nell’aspetto e nel modo di vivere e di pensare: tutti hanno i capelli lunghi (spesso raccolti in una coda di cavallo o in stile rasta), la barba incolta e portano uno zaino in spalla – tutte le donne, trasandatissime, ostentano i polpacci pelosi e portano uno zaino in spalla. Vengono nel Borneo spinti da quella che Tom Wolfe giustamente chiamò la «nostalgia del fango». Non sono interessati alla gloria imperiale del Rajah bianco James Brooke, che praticamente inventò dal nulla Kuching e lo Stato del Sarawak, né al culto del gatto o alle passeggiate romantiche sul lungofiume. Il loro principale obbiettivo è di andare a trascorrere un po’ di giorni ospiti nelle longhouses, le abitazioni tradizionali dei Dayak nei villaggi della giungla, casermoni enormi dove possono abitare fino a cento famiglie, separate l’una dall’altra soltanto da una porta. Cercano un ritorno fittizio alla promiscuità del primitivismo e l’illusione di un’atmosfera in stile Woodstock, probabilmente li guida una nostalgia delle comuni degli anni Sessanta – è insomma un modo di sfogarsi contro la civiltà che tanto detestano.
1.continua
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