"Nemmeno i moralisti osano più detestarlo"

Ecco l'articolo di Giovanni Arpino sull'apertura dell'edizione 1987 che uscì su queste pagine

"Nemmeno i moralisti osano più detestarlo"

Sempre più fastoso, gigantesco, forse apocalittico, torna il Festival di Sanremo. E c'è poco da ridere, anche perché è stato depennato Beppe Grillo (una delle scuse: nella notte finale il programma è talmente fitto che si faranno le ore 3,30 del mattino, e un comico sarebbe stato di troppo). Torna il Festival con tutto il suo corredo di chiacchiere, risse più o meno feroci, divismi facili, manovre sotterranee che molti ritengono sordide, speranze dei discografici, un universo che offre le sue redini in mano a Pippo Baudo, nei panni di Giove.

Se ne parla da ben trentasette anni, quando le primissime edizioni, pilotate da «Aramis» Filogamo e dedicate a quei famosi «amici vicini e lontani», sapevano di canzonette in famiglia, di teneri ritornelli subito catturati dai fischi dei garzoni dei fornai. Vivevamo pacificamente in bianco e nero, gli «effetti speciali» non erano ancora colati nei gironi degli spettacoli (e sulle nostre bistecche ritinte coi raggi infrarossi e misteriosi ormoni).

Riappare Sanremo proprio nei giorni in cui dà l'addio alla vita l'ultima delle sorelle Lescano: tramontano i tulipani, avanti coi garofani (senza nessuna allusione da parte nostra). Per quattro sere, anzi quattro notti (Baudo è un notissimo, pervicace tiratardi), trenta milioni di italiani seguiranno questa mostruosa giostra canora, puntandoci anche su un bel po' di miliardi, come è obbligatorio nella nostra Repubblica fondata su scommesse e lotterie.

Per reagire a tanta furia ululante diverse altre reti hanno apprestato programmi alternativi, che forse consoleranno la minoranza silenziosa, quella che non appartiene all'esercito dei trenta milioni. Chi non vuole rivedere Patty Pravo o un certo Mango può chiedere soccorso a un immancabile tenente Colombo, chi rifiuta Romina o gli Spandau può sempre nascondersi in un «tragico venerdì» dove Villaggio impazza. Chi se ne infischia della crisi di vendita (34 milioni di dischi nel '69 e solo 14 oggi, musicassette a parte) dedicherà un pensiero amichevole a Claudio Villa, che fu «reuccio» proprio da Sanremo in poi e oggi deve guardarsi lo spettacolo col cuore ricucito. Del Festival, e specialmente di questo, si è detto tutto da parte di chicchessia: è la «grande illusione», è la «malinconia di sempre», è la «voce del padrone» a misura planetaria ma ancora e sempre un pochino Italietta canora. Nemmeno i moralisti osano più detestarlo, e a Pasolini, che lo trovava «disgustoso», un editore severo come Laterza risponde oggi con un solennissimo libro intitolato appunto «Le canzoni di Sanremo».

E noi? A me, molto sommessamente, vien voglia di ripetere la famosa e sospirata frasetta di Eduardo De Filippo: «Imm'a passà a nuttata». Anzi quattro. Cercando doverosi camuffamenti e però senza sfregiare né sfottere quei trenta milioni di concittadini che nel «linguaggio festivaliero» trovano una loro provvisoria unità comunicativa, come gli succede anche col pallone o la spaghettata.

Corri, dunque, o Festival, scaraventando note, lustrini, pazze acconciature e pigolii dove ti pare.

Qualche risvolto inconsapevolmente ironico lo stai già proponendo, infatti: dopo il melenso film dedicato a Garibaldi, ecco che tu, o Festival, ti vendichi proponendo una canzone che si occupa dell'eroe dei due mondi coi seguenti versicoli: «Il Garibaldi è ricercato - in tutti i mari del Sud - ma non si può tagliar la barba - per questioni di look - Anita dice: Peppe, quando gioca il Brasil - si va a vederlo in Italy - pensaci Peppì». Molto bene. E buona notte, visto che quando Sanremo canta anche l'indice dei furti cala: non sono forse questi i veri miracoli «all'italiana»?

Il Giornale, 4 febbraio 1987

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