NEOFASCISMO Sessant’anni di protagonisti

Appena uscito, La fiamma e la celtica. Sessant'anni di neofascismo da Salò ai centri sociali di destra (Sperling & Kupfer, pagg. 410, euro 12) di Nicola Rao ha sgraffignato subito posti in classifica ai frequentatori del bestseller, sforando il tetto delle diecimila copie vendute. Se c’era bisogno di un’ulteriore conferma che a destra s’è aperto un importante varco per il mercato editoriale nel campo dell’indagine storica sulla memoria, più che dell'analisi culturale e politica eccola qui. Questa volta accompagnata da un curioso e consistente tam tam spontaneo di segnalazioni via sms e Internet che La fiamma e la celtica ha scatenato nel microcosmo post-neofascista, avido di biografie collettive sull’Italia «vissuta da destra» dopo aver giocato il ruolo dell’ospite scomposto e indesiderato nelle biografie altrui. Rao, cresciuto a pane e cronaca all’Adnkronos e traslocato in tempi recenti al Tg2, ci mette di suo lo stile secco e il ritmo serrato che costruiscono ogni buona indagine giornalistica, tante testimonianze registrate e tante immagini.
Le immagini. La principale di tutto il libro si forma in un dialogo con Enzo Erra. 1953, il Msi prende nemmeno il sei per cento. Orrore. Fino a quel momento i «fascisti senza Mussolini» avevano coltivato la certezza che il popolo stesse ancora con loro. Invece, «ci rendemmo conto che gli italiani ci avevano voltato le spalle»: in questa sottrazione, nello stacco dal ceppo del vitalismo futuristico di massa del Regime e il radicamento nel pessimismo molto di destra ma poco fascista dei «noi pochi», sta la tragedia del neofascismo, storia esistenziale e di pessimismo antropologico più che di ideologie. Con le dovute eccezioni, la maggior parte delle quali Rao rammenta, forse concedendo più spazio del dovuto all'extraparlamentarismo soprattutto romano, e altre ne scorda: per esempio Trieste, una delle poche città dove poi il neofascismo, sarà stato il vento anarchico che spirava da Fiume, faceva massa festante in nome dell’italianità e produceva fior di leader naturali come Almerigo Grilz, caduto vent’anni fa in Mozambico per fare il suo mestiere di reporter di guerra.
Ancora immagini. Dando una scorsa alle foto contenute al centro del libro è sufficiente prendere le prime due per chiedersi cosa c’entrano gli slip neri di Pinuccio Tatarella al campo missino di Bari, estate 1953, con la camicia nera di Stefano Delle Chiaie al campo missino sul Gran Sasso, estate 1955. Niente, appunto. Le due foto del teorizzatore di Alleanza nazionale e del fondatore di Avanguardia nazionale, giustapposte, fanno una formidabile istantanea sulle contraddizioni, e dunque la vitalità, che hanno animato il neofascismo in una storia sessantennale. Una storia dove si accostano Arturo Michelini che oggi starebbe in Forza Italia e la «grande destra» di Giorgio Almirante o i nazionalrivoluzionari che miscelavano Che Guevara e Mishima e lo sfondamento a sinistra di Pino Rauti, Pino Romualdi col nazionalismo creativo e Julius Evola con la «guerra cosmica», Franco Califano e Sergio Caputo, chi ha rimpianto e chi ha odiato il Sessantotto, il Fronte della gioventù e la sfida extraparlamentare, la lugubre serietà dei paramilitari e Teodoro Buontempo che nel 1970 lascia Roma perché sente puzza di golpe (Borghese). Arriva in Abruzzo e appena sceso dal pullman quelli del Pci lo sfottono: «A camera’, ma che cavolo ci fai qui? A Roma c’è il golpe e tu vieni a Ortona?». Le oltre quattrocento pagine de La fiamma e la celtica soddisfano reduci e curiosi (resta da scrivere la storia del fascismo fuori dal neofascismo, ma serve un altro libro).
Alla fine se ne ricava l’impressione che il neofascismo ha dato il meglio di sé quando - quando - è riuscito a liberarsi dai suoi stessi stereotipi e dalle ossessioni delle sue autorappresentazioni. Nei trentuno capitoli la ricostruzione politico-ideologica degli intrecci tra la destra istituzionale e quella extraparlamentare fa spazio ad aspetti curiosi legati al costume, al look, alle abitudini di vita. Per questo colpisce la foto di cinque sanbabilini detenuti a San Vittore, i Ray-Ban e le scarpe a punta, cappotto nero e giacconi militari stile Blauer che oggi farebbero gran moda.
Siamo alla metà degli anni Settanta, a Milano i fascisti vivono in stato d'assedio. Anno dopo anno nelle centinaia di giovani che frequentano i bar attorno a San Babila si concentra una tale confusione di tipi antropologici e «di fanatismo e di romanticismo» che per raccontarla Rao impiega tre capitoli gonfi di aneddoti, mitici quello della cocaina infilata nella zuccheriera di un bar per vedere che effetto faceva con il cappuccino, o dello scheletro lasciato in recapito alla polizia in una cabina telefonica. L’altra parte della vicenda sanbabilina alterna la ricostruzione politica dei rapporti controversi con il Msi a tanti percorsi individuali; qualcuno che ha fatto la storia di San Babila finisce male tra pistolettate e malavita o malissimo con storie brutte di ordigni e sparatorie. Troppo amore per il De André de Il bombarolo, ché «chi non terrorizza / si ammala di terrore». Altri preferiscono ricordare le Barrows gialle, altri ancora l'esperimento di «una nuova figura di fascista, molto scanzonata, irregolare e anticonformista» (sarà un caso che dieci anni dopo dalle parti di San Babila nascono i paninari, l’unica tendenza di costume che da destra ha contagiato l’immaginario giovanile?). Resta un verso iconico: «Si era giovani come nessuno lo è mai stato».
L’attenzione che La fiamma e la celtica dedica alla descrizione dei tipi antropologici che una generazione dopo l’altra costruiscono la storia del neofascismo (è una delle possibili chiavi di lettura del libro), fa emergere il ruolo decisivo dei movimenti giovanili come vettore, forse l'unico, di innovazione politica. La stessa croce celtica è il simbolo che buona parte della destra giovanile adotta negli anni Settanta per segnare una rottura ideologica con il passatismo impolverato dell’iconografia tradizionale, insieme alle Clarks ai piedi, i fasci capelloni, la simpatia per gli «indiani metropolitani» e i campi Hobbit che stupiscono tutti, i tradizionalisti e il cronista de il manifesto. La catena di lutti degli anni di piombo strozza la generazione dei Settanta che finora aveva i romanzi ma non un sussidiario politico, la generazione in parte figlia del suo tempo in parte calata nella realtà allucinata dello scontro totale con la sinistra militante (il diario della giovanissima militante di Terza posizione Emanuela è testimonianza preziosa).
Si cominciano a sperimentare forme di uscita da questo tunnel scoprendo la passione per il rock, il cinema, l'analisi della gaberiana «mia generazione», la critica attrezzata culturalmente del consumismo, opere della Nuova destra - «il più interessante tentativo culturale di superare il neofascismo» - che aveva capito quasi tutto, ma gli imprenditori politici del nostalgismo e dell’estremismo dentro e fuori il Msi avevano le spalle più larghe.

Le lotte ecologiste del «Fronte della gioventù» e i Moncler di «Contropotere studentesco» negli anni Ottanta o vent'anni dopo i fascio-creativi di Casa Pound non vengono dal vuoto, ricorda Rao. Nemmeno la destra di governo, ma questo già si sapeva.

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