Cultura e Spettacoli

Ma nessuna religione può rinunciare a usare la razionalità

È certamente nel giusto Antiseri quando denuncia la fragilità di quel razionalismo presuntuosamente persuaso di possedere soluzioni definitive. Da filosofo cristiano, egli invita a riconoscere i limiti della ragione e a questo fine chiama a raccolta alcune delle maggiori figure della storia del pensiero. Quando rigetta una certa idea di diritto naturale, è proprio tale pretesa che egli intende denunciare: l’arroganza di un filosofare che s’illuda di poter dedurre un sistema compiuto, e assolutamente giusto, muovendo da principi anch’essi fuori discussione. Studioso che molto ha fatto per far conoscere Popper, e che alla sua lezione è molto legato, Antiseri ci ricorda «la ricerca non ha fine» ed è pure questo un segno fondamentale della nostra strutturale fragilità e della nostra dipendenza da Dio.
C’è però anche un diverso diritto naturale: interessato a tutelare le esigenze della giustizia (a tenere viva la tensione tra legalità e legittimità, tra il diritto positivo e ciò che lo trascende), senza per questo pretendere di sposare concezioni deduttivistiche, che perdono di vista il carattere sempre contestuale dell’equità. Perché se da un lato è vero, come insegna Antonio Rosmini, che «la proprietà è il diritto», è pur egualmente vero che la proprietà conosce declinazioni assai diverse: rispondendo di volta in volta a distinte necessità. Ma proprio in questo senso il cosiddetto diritto naturale classico, da Aristotele a san Tommaso, ha sempre avuto consapevolezza del rapporto tra le esigenze di una giustizia perenne e le ragioni di un mondo in evoluzione.
È però significativo quanto ricorda proprio un autore caro ad Antiseri (e che invece a me pare rappresentare un momento oscuro della cultura occidentale), Hans Kelsen, quando afferma che «il diritto naturale è anarchico». Il giurista austriaco rigetta il giusnaturalismo perché sa bene che, al suo meglio, esso afferma l’esistenza di un diritto che giudica i medesimi legislatori.
Oltre al giusnaturalismo che ha prodotto il codice e l’arroganza di chi pensava di aver risolto così ogni controversia, c’è anche un diritto naturale che contesta il Potere in nome di scrupoli insopprimibili, che considera prioritario interrogarsi sulla giustizia e che a tale scopo non disprezza il confronto degli argomenti. D’altra parte, va ricordato che gli stessi testi sacri non s’interpretano da sé: e questo conferma la bontà delle tesi di sant’Agostino, persuaso che non c’è ragione che non muova da una «credenza» (da una fede, insomma), e che nessuna credenza può sottrarsi al confronto con quanti quella fede non condividono.
Pensare che la giustizia possa essere compresa unicamente entro una prospettiva scritturale significa elevare una barriera di fronte a ogni possibilità di dialogo e comprensione. E significa accantonare anche una parte significativa del messaggio evangelico, che in qualche modo fa coincidere l'amore per il prossimo con quello per Cristo. In Matteo (25, 31-46) i salvati si rivolgono al Figlio di Dio con queste parole: «Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere?». Ma essi avranno la vita eterna perché sono andati in soccorso del prossimo, anche se non hanno riconosciuto in lui il Salvatore.
D’altra parte, il relativismo in fondo è paradossale, se non è disposto a relativizzare se stesso. Il medesimo Antiseri è da tempo impegnato in una meritoria battaglia liberale contro uno Stato che si vuole onnipotente.

Egli usa argomenti molto forti a difesa dei diritti dei singoli e della libertà di mercato e contro le pretese degli statalisti di ogni colore. Non è forse, anche questa, una difesa razionale di un ideale di giustizia?

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