Nessuna traccia di sangue e due impronte misteriose Un’indagine con tanti dubbi

Ci sono ancora delle domande alle quali la sentenza di condanna all’ergastolo in primo grado di Olindo Romano e Rosa Bazzi non è riuscita a dare una risposta certa, univoca.
Come è morta Valeria Cherubini? E quando? Secondo i giudici la donna avrebbe raggiunto a fatica la sua abitazione al piano superiore, nonostante sei colpi al capo, numerose coltellate al costato e soprattutto uno squarcio alla gola che le ha tranciato la lingua. Non torna. All’arrivo dei soccorritori, secondo quanto confermato da tutti i testi in primo grado, alle 20.23 di quel maledetto 11 dicembre 2006 la donna era viva e gridava aiuto. Dunque? I Ris, nella loro deposizione, hanno stabilito che le macchie di sangue sulla tenda di casa Frigerio-Cherubini, davanti alla quale è stata ritrovata la donna supina, con le mani a protezione del capo, sono «da schizzo». E che dunque l’aggressione si sarebbe consumata lì. Se così fosse, gli aggressori non avrebbero avuto il tempo materiale per darsi alla fuga dal portoncino di via Diaz, vista la presenza nel cortile e nella palazzina di avventori, soccorritori e un ingente numero di forze dell’ordine. La presenza degli aggressori, sempre secondo le 400 pagine del dossier dei Ris, sarebbe confermata da due impronte di scarpe incompatibili con quelle degli imputati e dei soccorritori, e da un taglio nella tenda macchiata di sangue sul quale pende una richiesta di ulteriore perizia, richiesta e mai effettuata. Non c’è il tempo materiale per ucciderla e scappare via. Di chi sono le impronte? E come hanno fatto Olindo e Rosa a non lasciare tracce di sangue a casa loro? I due coniugi, è la tesi difensiva già proposta in primo grado, non hanno avuto il tempo materiale per uccidere la Cherubini, tornare a casa, cambiarsi d’abito, disfarsi di armi e vestiti senza imbrattare neppure un millimetro quadrato di casa e fuggire senza essere visti. Com’è possibile?
È per questo che la difesa ha deciso di ipotizzare un movente familiare, peraltro suffragato dai pessimi rapporti dopo il matrimonio con Azouz (che a fine processo disse alle guardie del carcere di avere dei dubbi sui due coniugi, salvo poi rimangiarsi tutto). Verbali alla mano, le incongruenze ci sono. Il 14 dicembre Carlo Castagna dirà che per andare in via Diaz ha dovuto aspettare la Panda della moglie, rientrata alle 22 «con un’altra persona sopra». Il 16 dicembre il figlio Pietro dice di essere rincasato tra le 20 e le 20.30 e di aver dormito fino all’arrivo della notizia. Le due versioni non collimano. Il 27 dicembre, dai carabinieri di Como, Carlo dirà che la persona rientrata a bordo della Panda è suo figlio Pietro. Il figlio ribadisce «sono tornato alle 20 e le 20.30». In Tribunale Carlo cambia versione e dice che il figlio è rientrato «prima delle 21». E il figlio, per la prima volta, dice che era in giro «con un amico». Il giallo resta. Anche perché una testimonianza resa agli inquirenti nei giorni immediatamente successivi alla strage da un tunisino senza fissa dimora amico di Azouz Marzouk collocherebbe Pietro (allora senza alibi) sul luogo della strage intorno alle 20.20. La deposizione, rilasciata il 25 dicembre, viene trasmessa in procura solo il 15 gennaio, quando il gip ha già confermato l’arresto di Olindo e Rosa. Strano.

Della Panda, usata dai Castagna per arrivare in via Diaz, non c’è più traccia: è sparita quasi subito, visto che non risulta neppure oggetto delle intercettazioni disposte a caldo sui telefoni e sulle auto dei Castagna. Anche sui brogliacci relativi a quelle conversazioni, assicura il pool difensivo, ci sono molte cose da chiarire.
felice.manti@ilgiornale.it

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