Niente morte in premio Moussaoui sepolto vivo

Il terrorista mancato dell’11 settembre voleva il martirio sul patibolo: la sua pena sarà invece l’isolamento perpetuo

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Gli ultimi sigilli sono stati apportati alla sorte di Zacarias Moussaoui, l’uomo che avrebbe tanto voluto partecipare al massacro delle Torri gemelle ma non ce l’ha fatta, che avrebbe tanto voluto essere condannato a morte ma non c’è riuscito. Gli è toccato l’ergastolo e il giudice ha spiegato quale, a lui, all’opinione pubblica, a quei parenti delle vittime che risultano essere delusi per la mancata sentenza capitale.
Non un ergastolo ma sei ergastoli consecutivi, nessuno dei quali commutabile. Reclusione a vita nel carcere di «massima sicurezza» degli interi Stati Uniti, quello di Florence nel Colorado, detto «la Alcatraz delle Montagne rocciose», in regime di isolamento perpetuo, ventitré ore al giorno in una cella di due metri per tre e mezzo, tutti i pasti da solo, nessun programma di riabilitazione. Il massimo possibile al di qua della pena di morte, che la maggioranza degli americani auspicava, che la pubblica accusa, in questo caso il governo, aveva chiesto, e che la giuria ha negato suscitando disappunto in aula in almeno due persone: l’imputato e il magistrato, che per tutto il dibattimento e anche a sentenza pronunciata, si sono scambiati epiteti e maledizioni.
«America, tu hai perso e io ho vinto» ha detto Moussaoui dopo aver ascoltato la sentenza. «Signor Moussaoui - ha replicato il giudice dopo avere dettagliato tutte le aggravanti della pena - adesso che il processo è finito tutti in questa stanza torneranno a vedere il sole, a sentire gli uccellini cantare, a parlare con la gente. Lei passerà il resto della sua vita in una cella. Lei morirà con un lamento». E il condannato ha lanciato un’altra rabbiosa sfida: «Dio maledica l’America, Dio benedica Bin Laden. Non lo prenderete mai».
È opinione generale, tuttavia, che il processo sia finito nel modo migliore, o meno peggiore, perché è stato un processo molto singolare, senza precedenti, con l’imputato e l’accusa che gareggiavano per strappare una sentenza di morte, il primo per ricevere la corona del martirio, la seconda per dare una forma più immediatamente emotiva alla sete di giustizia e di vendetta.
A lungo è parso che ce la facessero entrambi: Moussaoui ha scosso, fatto rabbrividire, esacerbato la sensibilità degli americani con un’apologia continua dell’eccidio terroristico di Manhattan, reiterando la propria soddisfazione per le rovine e il sangue di quel giorno. E al governo non sarebbe dispiaciuto poterlo mettere a morte come «il ventesimo uomo dell’11 settembre». In realtà i terroristi erano 19 e sono tutti, evidentemente, morti assieme alle loro vittime. Moussaoui è vivo perché non c’era e non avrebbe potuto esserci perché quel giorno era in carcere per un reato minore. È vero invece che era legato ad Al Qaida e che la massima aspirazione della sua vita era diventare terrorista e partecipare a una strage. Non c’è riuscito, un po’ per le circostanze, un po’ perché la cellula di Al Qaida con cui egli era riuscito a mettersi in contatto l’ha giudicato, cinque anni prima della giuria del suo processo, mentalmente instabile, qualcuno di cui non fidarsi. Gli è rimasto così il ruolo dell’apologeta e del capro espiatorio. Anche gli osservatori più illuminati ritengono giusto il verdetto, anche in paragone con le migliaia di detenzioni più o meno illegali a Guantanamo e altrove.

Al trentasettenne Moussaoui resta un piccolo spiraglio: essendo egli oriundo marocchino ma cittadino francese, Parigi potrebbe chiederne l’estradizione. E il ministro della Giustizia di Washington, Alberto Gonzales, non ha escluso di concederla.

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