Gian Micalessin
da Ramallah
Due parlamenti sotto assedio, la polizia e le milizie in rivolta, le Brigate Al Aqsa, braccio armato di Fatah, pronte a riprendere la lotta armata al fianco della Jihad islamica. C'è confusione sotto il cielo di Ramallah. E a disegnarla non è solo quella scia di traccianti, quel vomito di slogan, quel conato di violenza che accompagna la fine di un'epoca. A disegnarla è anche l'irreversibile e pericolosa contraddittorietà d'ogni possibile azione. Prendiamo il discorso pronunciato ieri a Damasco da Khaled Meshaal, numero uno della dirigenza in esilio di Hamas. Meshaal parla dalla Siria, ma si rivolge, una volta tanto, all'Occidente. Non a caso quando nella successiva conferenza stampa gli chiedono se sia pronto a rinunciare all'impegno a distruggere Israele e a rispettare gli impegni assunti dall'Autorità Palestinese Meshaal cerca di rispondere nel migliore dei modi possibili. «Onoreremo gli impegni se questi saranno utili per il nostro popolo, non riconosceremo l'occupazione israeliana, ma allo stesso tempo cercheremo di essere realisti e ci sforzeremo di fare ogni cosa gradualmente. Essere contro l'occupazione non significa cancellare Israele in un solo attimo».
Il tentativo di Meshaal di dimostrarsi realista e moderato affonda non appena il discorso si sposta sul terreno dell'ordine pubblico. «Vogliamo formare un esercito come quello d'ogni altro paese un esercito capace di difendere il nostro popolo dall'aggressione» afferma Meshaal ipotizzando un'unificazione dell'ala armata dell'organizzazione con le forze di sicurezza palestinesi. La dichiarazione punta a rassicurare, a garantire la fine al caos e dell'anarchia armata che sconvolgono Gaza e Cisgiordania. Ma agli occhi del mondo esterno le parole di Meshaal si trasformano in una nuova minaccia. Per Israele il progetto d'esercito palestinese è il primo segnale di una nuova sfida armata. Per Stati Uniti ed Europa l'impegno di Meshaal è il primo passo verso la rottura di quegli accordi di Oslo che proibiscono ai palestinesi la creazione di una vera e propria forza armata. Per i militanti di Fatah rappresenta il tentativo dell'organizzazione fondamentalista d'imporre la propria egemonia sulle milizie e sulle forze di sicurezza.
La prima reazione concreta arriva da Fatah. Poche ore dopo il discorso di Meshaal manipoli d'uomini incappucciati avanzano verso la Muqata e il parlamento di Ramallah. Sono miliziani delle Brigate Al Aqsa, poliziotti, agenti delle forze di sicurezza pronti ad un nuovo braccio di ferro. Accusano di tradimento il presidente Mahmoud Abbas e i vertici di Fatah, esigono la rinuncia ad ogni progetto di coalizione con Hamas, annunciano di non voler prender ordini da un governo fondamentalista. In ogni altra parte del mondo la rivolta delle forze di sicurezza verrebbe definita colpo di stato, ma qui nei territori palestinesi quella marcia all'interno del palazzo presidenziale di uomini incappucciati, quella salita sul tetto del parlamento, quei caricatori svuotati nel cielo sono solo l'ennesimo round di braccio di ferro giocato sull'orlo del precipizio. Le stesse scene si svolgono anche a Gaza. E a dar retta alle voci che s'intrecciano le vere eminenze grigie della duplice protesta potrebbero essere Jibril Rajoub e Mohammed Dahlan, i due consiglieri per la sicurezza presentatisi ieri davanti ai miliziani armati per chieder loro moderazione e fiducia. In tutto ciò il povero presidente Mahmoud Abbas sempre più solo attende oggi il cancelliere tedesco Angela Merkel. Dopo quell'incontro dovrà obtorto collo abbandonare il palazzo presidenziale di Ramallah e scendere nell'inferno di Gaza per discutere con i leader di Hamas la formazione del futuro governo.
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