Niger-gate, l’uranio fuori controllo e la regia oscura degli 007 francesi

Dubbi sui destinatari finali di «yellowcake». Il caso della Libia, gli accordi non firmati dalle imprese transalpine e la denuncia delle Ong sulle coperture dei servizi segreti

Mario Sechi

da Roma

Ciò che sul Niger-gate il partito politico-mediatico anti «Tre B» (Bush, Blair, Berlusconi) omette di approfondire, è l’oscuro ruolo della Francia e dei suoi servizi segreti. Eppure gli spunti interessanti da sviluppare non mancano, ma non trovano mai spazio nelle cicliche paginate di Repubblica, così come nei lunghissimi file dei blogger liberal d’oltreoceano. Sono punti fermi - inattaccabili e non smentibili - di questa spy story: la Francia aveva a libro paga Rocco Martino, il postino italiano del carteggio falso (distribuito nel 2002) sui traffici d’uranio fra Niger e Irak; la Francia era l’unico Paese a sapere dell’esistenza di quel dossier contraffatto fin dall’autunno del 2000; la Francia, pur sapendo che quel carteggio era falso, fino all’ultimo non l’ha mai comunicato agli americani che chiedevano conferme; la Francia ha il controllo totale sull’estrazione di uranio in Niger attraverso la Cogema; la Francia è l’unica nazione che sa tutto del Niger, sa tutto di Martino e non avrebbe impiegato più di cinque minuti a scoprire il bluff. Eppure la Francia ha taciuto.
Per rimettere i tasselli al posto giusto, occorre come al solito far parlare i fatti. Andiamo con ordine. Come si riscontra a pagina 69 del Report on the U.S. intelligence community’s prewar intelligence assessments on Irak, ultimato il 9 luglio 2004 dal Select Committee Intelligence, «il 4 marzo 2003 il governo Usa aveva appreso che la Francia si era basata, nella sua analisi originale sui tentativi dell’Irak di procurarsi uranio, sugli stessi documenti che gli Usa avevano fornito all’Invo», l’organismo allora diretto dal francese Jacques Baute. Ciò avviene tre giorni prima che l’Agenzia Atomica Internazionale certifichi che le lettere sono false. Le coincidenze in questa storia parlano sempre la lingua di Molière.
Il comportamento dei francesi appare incredibile dal punto di vista diplomatico (il direttore della Controproliferazione francese infatti il 22 novembre 2002 rassicurerà il Dipartimento di Stato Usa: le prove sull’uranio ci sono), ma sul dossier africano ci sono notizie che se certo non lo giustificano, almeno lo spiegano. Tutto ha origine infatti nel Niger, ex colonia francese dove Parigi controlla l’estrazione di uranio. Ma lo controlla davvero? Report di intelligence dicono di no: ci sono carenze nella sicurezza del trasporto e nel controllo esercitato sulle quantità di yellowcake (ossido d’uranio) in partenza. Si sa quanto ne parte, non si sa in quali condizioni di sicurezza viaggi e qualche volta non si sa dove arriva. Scrive Bruce Stanley, della Associated press, il 19 settembre 2003: «La sicurezza dei convogli risulterebbe affidata per l’intero percorso di 1995 chilometri a due soli gendarmi nigerini dotati di armi leggere e sprovvisti di mezzi di comunicazione». Due soli gendarmi per scortare uranio? E ancora: «La precarietà con cui viene gestito il trasporto di yellowcake avrebbe richiamato l’attenzione dell’Aiea che intenderebbe inviare in Niger un proprio team per accelerare l’approvazione da parte del governo di un accordo per il monitoraggio delle esportazioni di uranio». Messa così sembra farina del sacco nigerino. Ma Stanley accenna anche alla «scarsa collaborazione» offerta dal gruppo di compagnie minerarie controllate dalla francese Cogema «nel fornire indicazioni sul movimento del materiale radioattivo e nel consentire ispezioni presso i siti di estrazione».
In quel momento infatti è in corso uno scontro fra le autorità francesi e la Cogema da una parte e le Ong Criirad e Sherpa dall’altra. Oggetto: inquinamento ambientale e traffici illeciti. Secondo le Ong francesi la Cogema nella zona di Arlitt «sarebbe propensa non solo a eludere la legge ma ad esercitare proprio nel settore minerario forme di prepotere e controllo sul governo nigerino da impedirne ogni autonoma iniziativa sulla vendita di yellowcake». Se il Niger viene bypassato e tutto viene gestito dalla Cogema, le responsabilità francesi diventano palesi. È a questo punto che l’intelligence transalpina blinda il caso: si impegna a evitare l’accertamento di ogni responsabilità e svolge a livello di collaborazione con la Cia e l’Mi-6 un ruolo ambiguo che porta fino alla circolazione di false notizie. E a Roma manovra Martino...
Ma c’è di più. Al termine della missione in Niger (dal 3 all’11 dicembre 2003) la Ong Criirad denuncia le pressioni degli 007 francesi e delle compagnie minerarie per ottenere il rapporto finale in anticipo. Tanto da far capire alle Ong che se non collaborano rischiano, loro, di essere accusate di complicità nei traffici d’uranio. Accusa paradossale, ma a quanto pare efficace, visto che il 3 dicembre, all’aeroporto di Niamey i rappresentanti della Criirad vengono perquisiti e il loro materiale sequestrato. Le ombre sulla gestione Niger e la Cogema sono confermate dal rinvio a giudizio del tribunale di Limoges per inquinamento ambientale e gravi inadempienze nelle gestione e nel controllo degli impianti di estrazione d’uranio nella regione dell’Haute-Vienne.
La disinvoltura della Cogema nella gestione delle miniere d’uranio in Niger è certificata nel dispositivo che manda a processo la compagnia d’estrazione. Fra le accuse: 1. la tardiva adesione da parte del Niger all’Addictional Protocol to nuclear non-proliferation Treaty Safeguards Agreement sottoscritto solo l’11 giugno 2004, a Niger-gate scoppiato;
2.

L’ammissione del governo libico di aver acquistato tra il 1970 e il 1980 circa 1200 tonnellate di yellowcake mai dichiarate provenienti - secondo alcune fonti - «dalle miniere nigerine controllate dai francesi».
I senatori democratici, a cominciare da Jay Rockefeller, accusano l’Italia, ma si guardano bene dal bussare a casa dei francesi. Perché?
(3. continua)

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