Il Noè dei libri proibiti nel diluvio comunista

Incontro con Jiri Gruntorad. Nella Praga degli anni ’70 ricopiava con la carta carbone e diffondeva i testi messi all’indice dal regime

da Pisa
Un tasto, un altro tasto. Una vecchia macchina per scrivere portatile, una stanza in un appartamento di Praga, alla fine degli anni Settanta. Jiri Gruntorad lo sa: il rumore dei tasti è troppo forte, troppo riconoscibile. È il segno della sua attività «sovversiva», quella che lo porterà anche in prigione. Gruntorad, nella Repubblica socialista della Cecoslovacchia, affida ai tasti meccanici e rumorosi il peso della memoria. Quella macchina per scrivere è la sua personale tipografia, con cui stampa, da solo, nel chiuso della sua stanza, libri che non dovrebbero essere letti.
Così ha deciso il regime: sono opere che non possono essere pubblicate e diffuse. Già negli anni Cinquanta e Sessanta, nel Paese è comparsa un’editoria che, dal russo, è samizdat: autoprodotta, sottobanco, da chi non si rassegna. Sono opere di cui esiste, spesso, un solo esemplare, magari stampato su carta velina. Gruntorad decide che qualcuno le deve salvare, riproducendole nel maggior numero di copie possibile. «Qualcuno doveva pur iniziare a farlo: qualcuno doveva cercare di raccogliere quei libri, per poterli conservare». Gruntorad, ora, ricorda. Quella raccolta si è trasformata, dopo la rivoluzione di velluto, nella biblioteca dei Libri prohibiti. L’indirizzo è in piazza Senovazne, a Praga. In questi giorni è riuscito a portare una parte della sua collezione in Italia: è in mostra alla stazione Leopolda a Pisa, in occasione di «Pisa Book Festival», manifestazione che si conclude oggi e che, quest’anno, è dedicata alla Repubblica Ceca.
«È stato intorno al 1978 che ho iniziato a raccogliere i primi esemplari». È l’anno successivo a Charta 77, che firma insieme a molti altri intellettuali. Ora, sui suoi scaffali, gli ospiti sono quasi 25mila: «Il vero salto di qualità - racconta - è stato intorno al 1990, quando non c’era più il pericolo che mi venissero confiscati: a quell’epoca avevo così tanti amici che pubblicavano samizdat che non è stato difficile raccoglierli». Prima era una lotta sommersa: «Non c’erano le tecnologie di oggi. Allora usavo la macchina per scrivere, carta carbone e velina: così arrivavo a copiare dodici o quindici libri per volta. Naturalmente avevo paura. Sapevo che qualcuno era stato arrestato perché aveva provato a raccogliere e diffondere quelle opere».
Nel dicembre del 1980 finisce anche lui in prigione, per quattro anni. «In altri Paesi sono più numerose le collezioni di samizdat politici. In Cecoslovacchia, invece, erano proibiti anche moltissimi testi di narrativa, di saggistica e di poesia. Un pezzo unico, a cui sono molto legato, è un libro di un metro per un metro di Pavel Zajicek. È composto da collage: più che un libro, è un’opera d’arte». Non sempre sono capolavori: Gruntorad dà alla sua «casa editrice» un nome, Popelnice, che significa «bidone dell’immondizia». La parola vive nel sottosuolo, perché è dirompente per definizione. Al censore non importa il contenuto: teme il gesto che, creando, diventa racconto. Un’altra realtà, un altro tempo. La parola esplosiva di Bohumil Hrabal, quella di Jaroslav Seifert («il primo scrittore ceco a vincere il Nobel, nel 1984: anche le sue opere erano bandite»), quella, non solo politica, di Vaclav Havel: «Dopo il 1968 quasi 400 autori sono stati messi all’indice: un numero incredibilmente alto. Anche perché, una volta censurati, la condanna valeva per tutte le opere, precedenti e future».
Il criterio è cieco, come il censore nell’Iran di Azar Nafisi: «Non era sempre facile capire perché un libro venisse proibito. A volte il censore, non riuscendo a farsene un’idea, lo considerava pericoloso». Così, anche Tolkien può finire nella lista degli autori sospetti. Nel mirino anche i singoli vocaboli. Il problema, con Il signore degli anelli, è una geografia fantastica trasformata in divisione politica: «Nel libro, Tolkien parla di “est” e “ovest”: parole potenzialmente sospette. Così, le autorità hanno pensato che fosse un autore pericoloso». Osservati speciali, poi, i traduttori: «Se un traduttore era considerato pericoloso, venivano distrutte tutte le opere che aveva tradotto, indipendentemente dal contenuto. Così, anche Verlaine e Baudelaire circolavano solo in samizdat». Bohumil Klipa che, con lo pseudonimo di «K», ha reso in ceco Angelo Maria Ripellino, condanna il suo Praga magica a un’edizione «Index», nel 1978. Stesso destino per Jan Vladislav ed Eugenio Montale: Il corno inglese, nel 1979, si deve accontentare della carta velina.
Ora queste opere sono al sicuro, tutti possono sfogliarle. La loro colpa però, in qualche caso, rimane. È quella del singolo di fronte al regime, quella che costa la fatwa ai Versetti satanici: «Rushdie ha scritto un romanzo.

Ma questo, per la mentalità teocratica, è peggio di un attacco». È Kundera che lo dice. Anche le sue opere non mancano fra i Libri prohibiti. Il potere non tollera un altro potere. Un mondo creato e rivissuto, tasto dopo tasto, pagina dopo pagina.

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