Conviene non sottovalutare un movimento dopinione nato in America e che si sta sviluppando in giro per il mondo. Gli americani tendono a prendersi sul serio e lo hanno battezzato Tea party movement, evocando il movimento fiscale dal quale nacque addirittura la rivoluzione del 1776. Lidea di base è quella di costringere la politica a fare i conti con la storia. Gli spazi delle libertà individuali non debbono essere compressi a favore dello Stato. Unimposizione fiscale crescente rappresenta una minaccia. E non cè crisi economica che possa giustificare la rottura di un contratto sociale che è ormai scritto nel dna dei cittadini-contribuenti. Il tema è molto sentito dallaltra parte dellOceano, dove lamministrazione Obama ha alzato le aliquote fiscali, ridotto le detrazioni e ha dato limpressione di una crescita di peso dellapparato statale. È un segnale che riguarda anche lEuropa. Con alcune differenze.
Vediamole.
In Italia, la spesa pubblica è quasi la metà della ricchezza prodotta in un anno. Essa è per la gran parte finanziata con le imposte e solo residualmente con i deficit di bilancio. Ma la tentazione dei governi continentali è quella di pensare che la base imponibile dei contribuenti sia infinita. I cittadini possono sopportare tutto. Non è un caso che anche in Italia si stia, anche se confusamente, riproponendo il pericolo di una maggiore imposizione. Il livello espropriativo delle nostre aliquote sul reddito obbliga chi ci governa ad avere spazi di manovra ridotti. E questo è un bene. Ma lemergenza può venire in aiuto alle richieste più assurde. Intanto la crisi economica. La difesa delloccupazione e la tutela di coloro che perdono il posto di lavoro è correttamente posta a carico della collettività. Se ciò avviene non riducendo la spesa pubblica, ma richiedendo maggiori risorse ai contribuenti si contraddice lo spirito di uno Stato solidale: si utilizzano i contribuenti come un bancomat. La logica emergenziale utile a giustificare laumento delle imposte è dietro langolo. Il drammatico caso del terremoto abruzzese, ha portato addirittura alla ribalta lipotesi di una imposta patrimoniale o di unaddizionale sul reddito.
Il rischio che stiamo correndo è di scivolare inconsapevolmente verso una forma «socialista» di distribuzione della ricchezza. Il movimento non è dettato da una costruzione teorica, da unaffermazione di principio, ma dal tentativo di trovare soluzioni immediate a problemi concreti. È il socialismo del terzo millennio, che getta alle ortiche gli strumenti concettuali della «giustizia sociale», ma arriva alle stesse conclusioni operative grazie alla presunzione che lo Stato possa comportarsi meglio dei privati nelle soluzioni delle crisi. Si tratta di una prospettiva tanto suggestiva, quanto falsa. Le banche non saltano, perché lo Stato le finanzia. Il lavoro non si perde, perché lo Stato ci finanzia. Le imprese non chiudono, perché lo Stato le protegge. Nel breve periodo limpatto emotivo e sentimentale di questo pragmatismo, liberato da qualsiasi impalcatura retorica, può far breccia in un tessuto sociale ferito da una crisi.
Lidea per la quale uno Stato che già spende 750 miliardi di euro sia costretto a richiedere nuove tasse per aumentare la sua capacità di spesa, è semplicemente perversa. In questo senso la situazione europea e italiana in particolare è diversa rispetto a quella americana. Negli Stati Uniti i margini di aumento della spesa pubblica ci sono in virtù dei tagli fatti negli ultimi venti anni. Eppure la corda sembra essere tesa anche per loro. Da noi, come detto, non cè spazio. Se le richieste degli Stati nazionali dovessero aumentare, la nostra corda banalmente si romperebbe.
Ci troviamo nellimbarazzante condizione di temere, anche in Italia, inasprimenti fiscali. E non già, come era stato promesso, un percorso di riduzione della pressione. Fino ad ora la coppia Berlusconi-Tremonti (tranne che per la Robin Tax in aumento e lIci in diminuzione) non ha toccato una virgola.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.