Milano è stata fatta, insomma, soprattutto dai milanesi, ed è bene che il prossimo sindaco non dimentichi questa realtà, che imprime sulla nostra città un marchio unico.
Un altro percorso istruttivo è quello della linea 82, che parte dalla Stazione Centrale e, dopo un percorso che sfiora l'Isola, tocca la zona Farini, raggiunge Dergano e la Bovisa per terminare la sua corsa nel lontanissimo e incomprensibile quartiere Bovisasca, staccato dal corpo della città.
Mi rendo conto immediatamente, appena partito, che non potrò descrivere tutte le cose interessanti che incontrerò lungo il mio cammino: dal quartiere Isola, di cui lambisco il margine in piazzale Lagosta, alla chiesa-santuario di Santa Maria alla Fontana, un tempo meta di pellegrinaggi (quando qui era tutta campagna perché Milano finiva a Porta Garibaldi); fino alla zona compresa tra via Lancetti e il più interessante tra tutti i viali esterni, viale Jenner. Inoltre bisognerà che, prima o poi, parli di alcune bellissime vie vicine alla Centrale, come ad esempio via Copernico.
Lasciata la Centrale, che è una vera e propria cattedrale-bis della nostra città, la prima sosta è in viale Stelvio all'angolo con via Farini. Ho deciso di percorrere a piedi un tratto della vecchia via Comacina, che qui prende il nome di via Menabrea. Se osservate la cartina di Milano vedrete subito che esiste una via che comincia col nome di via Broletto (in realtà l'antico tracciato viene dal Naviglio Pavese) e diventa via Mercato, via Ponte Vetero, corso Garibaldi, corso Como, via Borsieri, via Thaon di Revel, via Menabrea, via Carlo Imbonati, via Pellegrino Rossi, via Astesani, via Comasina eccetera, fino alla ca' del diàul: è la vecchia strada che porta a Como.
Come tutte le vie della direttrice comacina, anche via Menabrea presenta un tratto di nobiltà che le vie adiacenti non hanno. In questa parte di Milano, tra negozi indiani e macellerie arabe non sembra di stare in Italia. Anche i negozi di telefoni cellulari sono gestiti da africani (bravissimi, dicono). Via Menabrea, enclave italiano, mette in mostra palazzi eleganti e dai suoi cancelli si intravedono antiche mura, nei cortili, di cui non riesco ad accertare l'origine.
Faccio il giro del quartiere per capire meglio, ma il mistero anziché svelarsi s'infittisce. A un certo punto mi ritrovo nella piccola via Monticelli, dove le architetture milanesi si mescolano con un'aria esotica ma senza una precisa provenienza: potrebbe essere il Cairo, oppure Sudamerica, o anche Cina. Osservo dai cancelli le solite vertiginose sovrapposizioni di stili e periodi. C'è molta cura: nelle vecchie case popolari ristrutturate, nei cortiletti. Ma c'è anche - si direbbe - molta paura, almeno a giudicare dal muro sgraziato, alto e possente, che è stato edificato davanti alle due palazzine più decorose della via. E viene da chiedersi chi siano i non-integrati, se sia solo un problema di stranieri o anche un problema di italiani, di milanesi - magari anziani - che non sanno più riconoscere il posto dove sono nati.
Risalgo sul bus e svolto in viale Jenner, uno dei punti caldi della nostra città. Da lì pieghiamo in via Livigno, dove si ha l'impressione di abbandonare la città: gli edifici dapprima si fanno più radi, si capisce che qui Milano finiva. Ma dopo poche centinaia di metri ecco il vecchio borgo di Dergano, dalla struttura popolare.
Dergano, non bella e famosa per le sue lapidi partigiane, conserva qualche vecchio edificio, e la cura di certi particolari dimostra che è un luogo amato. Una nuova piazza, antistante la chiesa, è stata dedicata a don Bruno de Biasio, un grande sacerdote - l'ho conosciuto anch'io - capace di dare un impulso alla realtà sociale del quartiere.
Il vecchio borgo di Dergano si unisce al vecchio quartiere operaio della Bovisa tramite due lunghe vie parallele e diversissime tra loro: via Candiani e via Baldinucci. Le percorro interamente a piedi, la prima all'andata e la seconda al ritorno.
Via Candiani è stata una delle strade malfamate di Milano: lì fu uccisa, nel 1987, la diciassettenne Mary D'Amelio. Ma la via conta al proprio attivo numerosi atti criminosi. Più popolare verso Dergano, via Candiani, dopo avere attraversato la solita terra-di-nessuno (Milano è piena di interstizi, rarefazioni, terre di nessuno) entra in Bovisa, oggi quartiere essenzialmente universitario, pieno di negozi di fotocopie, trattorie meneghino-cantonesi, focaccerie, piadinerie e altre diavolerie. Non mancano una grande libreria posti per tatuaggi. La vecchia architettura industriale oggi usata come università è, come sempre, bellissima.
Via Baldinucci è più luminosa, un po' più borghese, più graziosa. Spiccano i muri esterni dei primi studios cinematografici italiani, quelli di Armenia Films: 1909, quando Cinecittà era ancora di là da venire... E chissà che, se avessero resistito, il cinema italiano non sarebbe stato tutto diverso (e per molti aspetti migliore).
Salgo nuovamente sul bus in via Varè, poi Bovisasca, davanti alla stazione ferroviaria della Bovisa. Sembra di essere dentro una conchiglia abitata da pesci estranei all'animale - morto- che la produsse. Qui, l'animale morto è la MIlano operaia, che dopo essere stata mangiata dai vermi adesso si ricompone mostrando anche qui (come dappertutto) la faccia carina ma non bella della postmodernità.
Il popolo universitario (che popolo non è) forma una specie di barriera in un corridoio - quello che lega Milano, la Bovisa e Bovisasca - che un tempo conosceva una continuità sociale: qui passava una parte del flusso della Milano operaia. Il polo studentesco ha allontanato invece un quartiere già isolato come Bovisasca, separato dal vicino Quarto Oggiaro da una ferrovia che spacca in due la zona e da Milano dall'interruzione della via Bovisasca contro un ramo della ferrovia stessa. Bovisasca è un quartiere strano, non un vecchio paese e nemmeno un pezzo del corpo della città. Le sue vie sono larghe e dritte, le casette basse, tra il popolare e il decoroso, e ricordano - specie in giornate assolate come questa - certi vecchi quartieri di città americane.
Tutt'intorno, palazzoni ad alta densità separati da spazi verdi che sembrano essere stati messi lì perché si deve farlo. E' ora di smetterla con la retorica del verde: uno spazio verde o è al centro di un progetto urbano condiviso o è solo una nuova fonte di degrado.
Come un elefante addormentato, un immenso nucleo abitativo non più invitante di un carcere di massima sicurezza si stende ai margini del decoroso quartierino. Qui tutto può filare liscio, ma la forma stessa degli edifici, disposti in quadrato e orientati verso l'interno di questo quadrato, lascia pensare che basta un paio di balordi per rendere invivibile tutta la zona. Anche qui, come altrove, è evidente che progettisti e amministratori pubblici hanno considerato la dignità umana less then zero.
Tuttavia, l'impressione principale che mi porto da questo viaggio è quella di una città fortemente territorializzata. Anche nelle zone a maggioranza straniera, è sempre possibile ravvisare i segni di una continuità abitativa: figli che non vogliono lasciare il quartiere dove sono cresciuti, e perciò lo riedificano, lo reinventano.
E' bene che amministratori e stakeholders della città lo sappiano: MIlano non è certo il teatro di una pianificazione astratta e indiscriminata.
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