La "non belligeranza" dell’Italia cerchiobottista

Mario Cervi, "ragazzo del '21", ricorda l'inizio della Seconda guerra mondiale. E le incertezze di un Paese già sfuggito dalle mani del Duce. Le posizioni filotedesche erano estranee alla popolazione che tifava Francia

La "non belligeranza" dell’Italia cerchiobottista

Che sollievo. La voce di solito vibrante - ma nella circostanza pacata - del più noto tra gli annunciatori radiofonici dell’Eiar, aveva dato il primo settembre 1939 la grande notizia. Grande, anzi grandissima, per gli italiani. Non la notizia dominante dell’attacco tedesco alla Polonia - l’inizio della seconda guerra mondiale - ma l’altra della «non belligeranza» fascista. Il Consiglio dei ministri, convocato dal Duce, aveva deciso che «l’Italia non prenderà iniziativa alcuna di operazioni militari». Mentre i panzer si avventavano verso Varsavia, noi rimanevamo fuori.

Ricordo la mia personale esultanza di ragazzo che aveva appena conquistata la maturità classica nel «Parini» di Milano. E insieme alla mia l’esultanza di tanti compagni di scuola e amici. Presto la nostra classe di universitari - 1921 - sarebbe stata arruolata al completo. Ma intanto ci godevamo quell’intermezzo, senza minimamente sapere cosa ne sarebbe stato di noi. La «non belligeranza», formula ambigua d’un Paese furbastro, era il meglio che ci potessimo aspettare dopo tanto rullare di tamburi. La propaganda del Minculpop ripeteva stancamente, mentre venivano consumate le ultime ore prima che il conflitto diventasse planetario, le parole d’ordine filotedesche. «Le proposte di Hitler per Danzica e il corridoio, leali ragionevoli ed eseguibili, lasciate stancamente cadere da Varsavia e da Londra. Inghilterra e compagni inchiodati alle loro tremende responsabilità. Inaudito egoismo». Le due grandi democrazie occidentali si schierarono, sia pure platonicamente, a fianco della Polonia il 3 e 4 settembre.

Con proclami verbali Mussolini ostentava la sua solidarietà a Hitler. Ma sapeva benissimo - glielo confermavano i rapporti quotidiani di polizia - che la gente, anche quella ostentante la camicia nera, tollerava male l’alleanza con i tedeschi. Semmai le simpatie andavano alla Francia. Del resto la pensavano così anche i vertici militari. Il maresciallo Badoglio, cui pure non difettavano le qualità di comando, non capì niente. Aveva la convinzione che la linea Maginot, eretta dai francesi a protezione del loro territorio, fosse invalicabile. Essendo capo di stato maggiore generale d’un esercito che fu impegnato quando la guerra era in corso da mesi, non profittò della lezione datagli dalla Wehrmacht, fece la guerra precedente, non la contemporanea.

Gli italiani avevano esaurito le loro riserve di patriottismo e di bellicismo con le campagne d’Etiopia e di Spagna. Anch’io, quindicenne, mi sono commosso per l’annuncio dell’Impero. Anche mia madre ha dato alla Patria la fede nuziale, imitando la regina Elena. Mussolini era un genio nel creare occasioni simboliche e nello smuovere sentimenti profondi. Ma l’idillio stava finendo. Le leggi razziali erano apparse ripugnanti - ricordo il mio dolore quando il preside del «Parini» Guido Vitali fu cacciato perché ebreo - e nei mesi che seguirono lo scoppio della guerra la commozione degli italiani andò non ai tedeschi - che insieme ai francesi si annoiavano nella drôle de guerre - ma ai finlandesi lottanti con l’Urss. L’eroe era il maresciallo Mannerheim, il cantore di quell’epopea Indro Montanelli.

L’invasato Hitler era odioso ai più. Nonostante il servile fiancheggiamento dell’informazione fascista, nessuno prestava fede alle provocazioni cui si appellava Hitler per le sue aggressioni.
Mussolini, l’uomo del «se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi» e dei cervellotici progetti di conquista - sarà umiliato, per queste presunzioni da stratega di bar, nella campagna di Grecia -, era amato in quel momento per le sue qualità di mediatore. Il guerriero insonne era diventato un paciere. Dopo il convegno di Monaco, che in sostanza decretò lo smembramento della Cecoslovacchia, ma che aveva visto lui, Mussolini, nel ruolo di autorevole intermediario, manifestazioni osannanti l’avevano accolto al ritorno. La cosa non gli era piaciuta molto. S’era dato da fare per trasformare l’Italia in una nazione di combattenti instancabili e di filotedeschi tutti d’un pezzo, e se li era ritrovati pacifisti e ammiratori delle demoplutocrazie giudaico massoniche. Quando deliberò la non belligeranza gli italiani lo ammirarono, ma per motivi opposti a quelli che lui avrebbe voluto.

Non vorrei essere frainteso. Non vorrei cioè che si pensasse, per ciò che ho scritto, all’Italia descritta dai professionisti duri e puri dell’antifascismo. Un’Italia cioè che fremesse sotto il giogo mussoliniano, ansiosa di esserne liberata. Niente di tutto questo, per la stragrande maggioranza degli italiani. E men che meno in quei primi di settembre del 1939 che illusero - che ci illusero - sulla possibilità di tenere il Paese ai margini dell’immane strage.
Non fu così, purtroppo lo sappiamo. Badoglio aveva torto, la Maginot non è servita perché i tedeschi l’hanno aggirata invadendo il Belgio e l’Olanda. Inebriato dalle vittorie hitleriane, il temporeggiatore della non belligeranza s’era trasformato in predatore: ma come lo sciacallo che s’affianca alla tigre per avere qualche boccone delle sue prede.

Il primo settembre 1939 Mussolini fu popolare, il 10 giugno 1940, giorno dell’intervento italiano, si rivolse con il suo discorso tonitruante a un Paese perplesso ma non sgomento. Molti italiani non solo subirono, ma accettarono la decisione perché ritenevano, come lo riteneva il Duce, che i tedeschi avessero già vinto, e che convenisse stare dalla loro parte. Quanto si sbagliavano...

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