Non c’è solo lo stato vegetativo

Uno dei difetti del disegno di legge attualmente in discussione sul testamento biologico non mi pare sia sinora emerso né dal dibattito pubblico, né in sede parlamentare. Mi spiego. Sull’onda emotiva suscitata dal caso Englaro, tutta l’attenzione è andata a concentrarsi sui soggetti in stato vegetativo, soggetti cioè che a causa di un grave trauma cranico improvviso non sono più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso informato riguardo all’uso di determinati trattamenti sanitari e/o di sostegno vitale, quali, in particolare, la nutrizione e l’idratazione artificiali.
Il disegno di legge, stando alla versione nota e non emendata, all’articolo 5 afferma espressamente che la dichiarazione anticipata di trattamento assumerà «rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto in stato vegetativo non è più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e per questo motivo non può assumere decisioni che lo riguardano». Se ne deduce che suddette dichiarazioni potranno essere effettuate solo in previsione di un evento indubbiamente tragico come quello dello stato vegetativo persistente. Ecco, io credo che una tale limitazione del testamento biologico a questa singola situazione sia inadeguata, inutilmente restrittiva. Ci sono tutta una serie di malattie a lenta evoluzione (penso qui, ad esempio, al morbo di Alzheimer, alla sindrome di Pick, alla demenza senile, o ad alcune forme tumorali allo stadio terminale) in cui il paziente senza essere in stato vegetativo può venirsi a trovare in uno stato di perdita progressiva, temporanea o permanente, delle sue capacità mentali.
Una persona che è ora nelle condizioni di non poter più esprimersi a riguardo, dovrebbe avere il diritto, magari proprio quando cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie della malattia, di esprimersi per quando non sarà più in grado di farlo, dando indicazioni sul tipo di cure cui intende sottoporsi. Com’è noto, infatti, per molte malattie a lenta evoluzione, che incidono sullo stato di coscienza, sono possibili opzioni terapeutiche diverse, più o meno invasive (anche qui qualche esempio: fare o non fare una tracheotomia che potrebbe soltanto prolungare il tempo di sofferenza di un malato terminale? Sottoporre o non sottoporre a una nuova chemioterapia un paziente destinato in breve tempo a morire?), che se il paziente è ancora nel pieno possesso delle sue facoltà decisionali può discutere con il suo medico curante, scegliendo tra percorsi di cura più o meno invasivi e bilanciando costi e benefici.
Non si vede per quale ragione egli sinché è ancora nelle condizioni di poterlo fare non possa indicare in merito a ciò le sue preferenze nel testamento biologico. Ma vi è di più. Il paziente nel quale ora può essere alterato, anche in modo permanente, lo stato di coscienza, potrebbe aver preferito di essere curato a casa, all’ospedale, oppure di passare gli ultimi mesi della sua vita in una struttura di ricovero specifica, potrebbe inoltre essersi deciso per cure palliative e rifiutare invece pratiche terapeutiche invasive.

Su tutto questo, e vi pare poco, ci si sarebbe potuti esprimere nel testamento biologico, e invece l’attenzione del legislatore è andata soltanto sui soggetti in stato vegetativo, enfatizzando un aspetto, quello della nutrizione ed idratazione, a scapito di molti altri aspetti, per lo meno altrettanto importanti, come quelli che ho qui cercato di delineare e che riguardano molti altri pazienti.

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