Ma non chiedeteci di perdonare chi uccide

Ma non chiedeteci di perdonare chi uccide

Per quanto mi sforzi, sfugge alla mia capacità di comprensione - alla mia sensibilità - come un genitore possa perdonare l'assassino del figlio. L'ultimo caso che ricordi è quello della strage di Erba, con un padre, uomo palesemente mitissimo, che dichiarava di perdonare i feroci assassini di figlia e nipote. Un perdono cristiano, allora come oggi, nel caso del delitto di Spinea.

Non voglio di certo addentrarmi in questioni teologiche, che non mi competono, ma mi sembra che anche il cristianesimo contempli una punizione, un'espiazione, prima del perdono del peccatore: sia pure con tutte le varianti - porgi l'altra guancia - del messaggio evangelico. Qui dunque non si tratta di entrare nella testa e nel cuore di Danilo Vanin e di Gina Casarin che - nel pieno del dolore per la morte così crudele, improvvisa, feroce, inutile della figlia - invece di manifestare un umanissimo odio, decidono per un perdono angelico. La coscienza, come il dolore, è loro e non possiamo che rispettarla.

I rapporti che regolano la società, e i comportamenti aberranti dei suoi membri, sono un'altra cosa. La difesa della vita umana dalla violenza di un omicida, quali che ne siano i motivi, è uno dei pilastri su cui si regge la società civile, almeno da quando è degna di questo aggettivo. Non si tratta di essere più o meno forcaioli, né tanto meno di invocare la legge del taglione: quell'essere «civili», ovvero avere raggiunto un alto livello di civiltà, comporta anche che uno Stato, e la comunità raccolta nello Stato, non possono e non devono mettersi sullo stesso piano di chi ha ucciso, uccidendo a loro volta. Ma la difesa della società, e di ogni singolo individuo che la compone, comporta che non ci possa essere clemenza - di perdono non si parla neppure - verso chi ha commesso il più grave dei reati.

La giustizia prevede una pena, cioè una punizione, per chi ha commesso un reato, figurarsi un delitto. Questa pena, secondo i nostri codici, dovrebbe portare alla riabilitazione del condannato, in termini religiosi si direbbe "redenzione". Certo, il carcere non sempre riesce a riabilitare né a redimere il colpevole. A volte, quando la sentenza è di ergastolo, si arriva direttamente alla conclusione che per certi delinquenti non ci sia possibilità di riabilitarsi; e su questo si può discutere, perché l'ergastolo smentisce il principio stesso della prigione come modo di recuperare soggetti pericolosi.

Però il carcere ha senz'altro il pregio di allontanare dalla società - di rendere non pericoloso - chi potrebbe colpire ancora. E di punire con la perdita della libertà (non riesco a immaginare castigo più tremendo) chi ha «sbagliato». Nel caso di un assassino - tanto più di un assassino come quello di cui stiamo parlando, sessanta coltellate - c'è solo da augurarsi che la pena sia lunga, lunghissima. E che il perdono dei genitori della vittima non possa costituire in alcun modo un'attenuante e portare a una condanna più mite.

Con ogni possibile rispetto per il dolore - e la generosità - di quel padre e di quella madre, tutti noi siamo stati offesi e feriti da un delitto simile; e la società - noi - non può permettersi di porgere l'altra guancia.

www.giordanobrunoguerri.it

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