nostro inviato a Kabul
Meli, albicocchi, gelsi, campi di grano e di patate. E mucche, pecore nere e asini attoniti. Dunque pastori. Ma con certe facce, certe barbacce e certi turbanti che sembrano pensati nell'altro secolo dalla fantasia dei fabbricanti di presepi napoletani che avevano in mente i pirati di Sandokan.
Nel villaggio di Bar Arghandi, distretto di Pagman, 12 chilometri a occidente di Kabul, le case son tutte uguali. Modesti abituri di fango impastato a paglia. Ma poiché si è detto presepe, e il presepe prevede un ruscello, ecco anche questo. Con papere e bambini che gareggiano facendo correre sul filo della corrente i loro legnetti colorati. Nel violarancio del tramonto, lungo un tratturo, l'azzurro balenare di due burqa plissettati, gonfi di vento, che appaiono e scompaiono tra le spighe di un campo di grano. Bisognava venire fin qui, in questo Eden primordiale di Bar Arghandi, per riconciliarsi con certe vecchie immagini della memoria che restituiscono quell'Afghanistan rurale, incantato, benedetto da cieli purissimi che lasciò senza fiato i viaggiatori inglesi dell'Ottocento e gli hippies un po' fumati degli anni Settanta.
Basta però salire sul culmine della collina dove scavarono la vecchia piscina all'aperto di Kabul, luogo prediletto dagli sgherri del mullah Omar che vi allestivano le loro fucilazioni, per ripiombare nella cupa realtà di una città che pare senza speranza. Un verminaio incollerito, convulso, bollente, inquinato come Pechino in cui suppura una città passata nel volgere di pochi anni da 700mila abitanti a quattro milioni e mezzo. Sono arrivati dai quattro punti cardinali: mujaheddin senza lavoro, talebani che han messo su famiglia e appeso il mitra al chiodo, pastori con le loro greggi di pecore e cammelli, contadini espettorati da anni di siccità.
Sono passati otto anni dalla cacciata dei talebani del mullah Omar. Ma il clima che si respira in città ricorda quello della Saigon prima della fuga degli americani. Stessa precarietà, stessa corruzione, stessa rassegnazione al peggio. Mancano solo le puttane. Il fondamentalismo islamico, in crescita virulenta nel vicino Pakistan ha ridato fiato, e rinsanguato le milizie degli «studenti della legge» che sui viali di Kabul impiccavano i televisori a colori e tagliavano la mano destra e il piede sinistro ai ladri e ai truffatori. Di fronte alla rinascita dei talebani, e al consenso che vanno raccogliendo nell'Afghanistan rurale, offeso dallo sconquasso modernista della capitale, i 70mila uomini dei contingenti Usa e Nato-Isaf, sparsi su un territorio grande come due volte la Francia, possono poco. È la grande sfida della nuova politica estera americana. Le milizie dell«Amirul Mominiin», il comandante dei fedeli fuggito a suo tempo sotto il naso degli americani a bordo di un sidecar, controllano tre delle quattro grandi strade del Paese. Due anni fa, l'artiglio dei talebani si stendeva sul 54 per cento del territorio. Oggi è il 74 per cento. I morti di pallottola o di dinamite, tra i civili e le forze della coalizione sono passati da 2100, nei primi sei mesi del 2008, a 2500 nello stesso periodo di quest'anno.
Otto anni non sono bastati per veder sorgere un vero ospedale, una grande strada, un nuovo quartiere di case popolari. Il furore edilizio che percuote la capitale, i camion pieni di mattoni, sabbia e cemento che si vedono a ogni incrocio riguardano i privati. I denari provenienti dalla droga, dal contrabbando e dai mille traffici nati intorno alla presenza delle truppe straniere - quasi un terzo del Pil - hanno creato un piccolo nucleo di nuovi ricchi che fabbricano case su case per sé e il loro clan, spendendo fortune al «Kabul Paris wedding hall» (tutto per la sposa e lo sposo) in vestiti e orpelli per le fragorose e rutilanti cerimonie nuziali dei loro rampolli. Come a Caltanissetta nel 1958.
«Ci sarebbe voluto un grande piano Marshall. Poderosi investimenti esteri capaci di creare ricchezza e sviluppo. La gente era pronta al cambiamento», mi dice l'amatissimo dottor Alberto Cairo, il cuneese che da 19 anni lavora a Kabul per la Croce Rossa internazionale mentre passeggiamo tra i mutilati del suo magnifico Centro ortopedico «Ali Abad», dove si producono 15mila protesi l'anno. «Invece gli americani, sul più bello, hanno voltato le spalle all'Afghanistan e sono andati a fare la guerra a Saddam. Naturale che ora gli afghani non ci credano più. Colpa anche loro, sia chiaro. Pensavano di essere assistiti a vita, come da noi al sud».
Ma è la corruzione, il malgoverno, il nepotismo di una classe dirigente rivelatasi incapace di governare una possibile rinascita del Paese, che offende maggiormente gli afghani. «In questo Paese dove l'anarchia trionfa e dove nessuno paga le tasse vanno avanti solo quelli che dispongono di denaro - dice Karim Jalali, pilota formatosi all'accademia aeronautica di Pozzuoli -. Quello che sta nascendo è una specie di capitalismo selvaggio, sbilenco, alla russa».
Bastano le cose dette fin qui per dare la misura del malinconico fallimento del governo Karzai. Osannato all'inizio come il leader della Provvidenza, Hamid Karzai si è giocato in otto anni popolarità e consenso di un elettorato sfiduciato e incupito. E quella, soprattutto, dell'amministrazione americana, che è alla disperata, ma finora infruttuosa ricerca di un candidato alla presidenza più presentabile. Peccato solo che non si vedano alternative credibili. Chi altri, ci si domanda a Washington, se non Karzai? In campo pashtun cresce il consenso intorno all'ex ministro delle Finanze, Ashraf Ghani. Ma anche l'ex ministro dell'Interno Ali Jalali potrebbe avere qualche chance. La fazione tagika, insieme con gli hazara e gli uzbechi, schiera il nipote del re Mustafa Zaher.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.