Politica

«Non consegneremo mai le armi»

Gian Micalessin

da El Khiam

La «divina vittoria» iscritta sull’immenso cartellone autostradale ti saluta dopo il ponte di Ez Zahrani. Era la porta del sud. Il primo cancello per il regno di Hezbollah. Oggi è un cratere nel cemento. Da qui, sotto l’arcata, un buco aperto sul cielo. Le auto sprofondano nel torrente, s’arrampicano sul ponte di travi, scendono nel regno della distruzione. Ponti abbattuti, palazzine livellate, stazioni di servizio carbonizzate. Isole di macerie scelte e divelte da un demiurgo minuzioso e incattivito. Tony guida e sorride. Per 34 giorni ha osservato questa guerra con gli occhi da cristiano. L’ha studiata con il distacco di un estraneo prigioniero tra l’incudine del Partito di Dio e il martello d’Israele. Un tempo era un uomo di guerra, un uomo dell’Els, l’armata collaborazionista messa dagli israeliani a controllare i territori a sud del Litani. Guida verso la sua Marjaayoun, la città maronita otto chilometri dal confine, e racconta la sua verità. «Guarda le stazioni di servizio, non tutte sono state distrutte, le bombe hanno colpito solo quelle di proprietà di Hezbollah, iniziarono a comprarle sei anni fa tramite società di comodo per controllare i rifornimenti e finanziarsi, Israele gliele ha buttate giù una dopo l’altra. Hanno fatto degli errori, ma non hanno mai colpito a caso».
Fra le macerie gli striscioni gialli di Hezbollah inneggiano alla vittoria. «Avete distrutto i ponti noi - promettono - passeremo attraverso i cuori della gente». Ora è passata anche Nabatya. La strada precipita tra le forre, risale le vette di un carso pietroso tagliato da gole profonde. È l’impossibile campo di battaglia del sud. Senza spazio per i carri. Senza respiro per i soldati. Lassù è il castello di Beaufort scavato nella roccia dai crociati, ferito da mille battaglie, segnato oggi dalla bandiera gialla con mitra e corano della guerriglia sciita. Seicento metri più sotto il Litani. «Lì - indica Tony - hanno i loro bunker, là sopra salivano a rifornirsi». Lassù è Deir Mimass, il monastero sventrato, il cimitero profanato. Bombe tra i loculi, bare squarciate, scheletri di monaci dissepolti, straziati da missili e bombe. Un film dell’orrore nel chiarore abbacinante del mezzogiorno. «Sergious Saman, il prete ortodosso, un po’ era costretto un po’ li aiutava - racconta Tony -. Nei primi giorni di guerra ordinava pane e viveri per i guerriglieri, loro salivano dai bunker del Litani, lui li ospitava in chiesa, gli israeliani se ne sono accorti e le bombe sono arrivate. Neppure qui per caso».
Il viaggio nell’altra guerra entra a El Khiam. La sua prigione museo era l’icona delle torture inflitte alle popolazioni sciite dall’82 al ritiro del 2000. Ora è una città martire guardata a vista dai ritratti dell’imam Khomeini, della Suprema guida Alì Khamenei e del segretario generale Hassan Nasrallah. Un oceano di distruzione aperto dalla scuola «Gesù figlio di Maria». «Gesù è un profeta del Corano - spiegano i volontari di Hezbollah già al lavoro per recuperare banchi, libri, archivi tra il cemento sbriciolato -. Questa scuola per orfani e bambini poveri ce l’aveva regalata l’Iran, costava quattro milioni di dollari, abbiamo già finanziamenti per un milione e mezzo, cominceremo a ricostruirla subito».
Il maronita Tony indica la frontiera. «I carri armati salivano da lì, la scuola era la prima linea, per fermarli si sono messi dentro con i lanciamissili.. ne hanno colpiti due, poi gli aerei gliel’hanno fatta crollare addosso». Più su il cuore della città è uno strazio, un gruviera di cemento attraversato dal lezzo di cadaveri, tempestato dall’acciaio, arrostito dagli incendi, annerito da polvere e caligine. Le squadre della «jihad bina», i «ricostruttori della guerra santa» sono al lavoro da giorni. «Abbiamo contato 500 case distrutte su quattromila, le abbiamo catalogate e mercoledì (domani) arriveranno gli indennizzi», spiega, Aji Abu Mohammed. Il cognome vero non si può scrivere. Ufficialmente è solo un assessore all’ecologia, ma tutti lo conoscono come il numero due di Hezbollah nel settore orientale. Un comandante super ricercato, un uomo nel mirino d’Israele che s’aggira tranquillo e disarmato tra le sale del consiglio municipale e la folla in attesa. «Mercoledì le 500 famiglie senza più un tetto riceveranno dodicimila dollari ciascuna. Li distribuiremo in contanti, serviranno a pagare l’affitto per il primo anno, intanto le squadre della Jihad Bina ricostruiranno le loro case». Se gli chiedi da dove arrivino quei 60 milioni di dollari destinati solo agli sfollati di El Khiam, Aji Abu Mohammad non si scompone. «Sono i fondi di Hezbollah. Li abbiamo pronti dal primo giorno di guerra, quando Israele ci ha attaccato abbiamo cominciato a pensare come rimettere in piedi le nostre case dopo la vittoria».
Intorno non si vede né un guerrigliero, né un soldato libanese. El Khiam non è più un fronte di guerra, è l’immenso cantiere dove sono scavate le fondamenta per sorreggere la fede nel Partito di Dio. Se gli chiedi dove siano finite le sue milizie, se siano già pronte a disarmare, l’assessore Aji alza le braccia al cielo. «Abbiamo vinto, i combattenti per ora non servono più, ora l’esercito libanese può tranquillamente accomodarsi, ma non ordinarci di consegnare le armi. Il nostro accordo non lo prevede». E a sentire il luogotenente di Nasrallah a El Khiam, neppure il contingente internazionale o la nuova missione Unifil potranno illudersi di cambiar le cose. «Con i soldati stranieri non abbiamo problemi, se il nostro leader li accetterà li accoglieremo senza problemi, ma nessuno ci potrà ordinare la consegna delle armi. Nessuno venuto dal Libano o da fuori potrà imporci qualche decisione. Abbiamo sconfitto Israele, non esiste sulla terra una forza capace d’imporci alcunché.

Qui solo Hassan Nasrallah e il movimento di Hezbollah decideranno cosa si deve e cosa si può fare».

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