da Roma
Ermanno Olmi è un regista anomalo nel paesaggio cinematografico italiano: e non solo perché lintera sua opera filmica è dedicata a figure ed episodi di un mondo eticamente desiderabile, ma anche (o forse soprattutto) perché ognuno dei «capitoli» di questopera ci appare come un mistero tanto più malioso quanto più impossibile da etichettare. Lo sanno bene gli spettatori che ricordano il piacere e lo stupore con i quali, nel 1978, accolsero Lalbero degli zoccoli, uno dei suoi spaesanti capolavori, dovè dato solo guardare, apprezzare, fuggire il già noto come la peste. A distanza di trentanni da quellinterrogazione evangelica sul nostro passato contadino (Palma doro a Cannes, Premio César come miglior film straniero, David di Donatello), Olmi vivrà un trionfo personale, quando, il 21, Rai Cinema presenterà sulla Croisette Lalbero degli zoccoli. Trentanni dopo (libro a cura di Lorenzo Codelli, Edizioni Federico Motta e dvd con copia restaurata dal Centro Sperimentale, con intervista a Jilles Jacob, che impose Lalbero degli zoccoli a Cannes), rendendo omaggio allartista italiano più lontano dalle mode nazionali e dagli attici capitolini. E siccome è arrivato il tempo della vera gloria, questanno la Mostra di Venezia, 65esima edizione, darà al saggio Ermanno il Leone dOro alla carriera, visto che «il suo cinema esprime unetica dello sguardo così vicina al mondo tra lo schermo e la vita». Stavolta Olmi non si ritrae, avendo già rifiutato il riconoscimento («Il Leone alla carriera, di solito, si dà quando uno ha smesso di lavorare», disse allepoca). Dopo il successo de I cento chiodi, lanno scorso, quando il suo ultimo film di finzione (svolta irreversibile: ora gira documentari) convinse pubblico e critica, il cineasta conosce uneffervescenza creativa senza precedenti. E, abbandonato il proverbiale riserbo, palesa la sua contentezza dagli altopiani di Asiago, dove vive con la moglie Loredana.
Caro Ermanno Olmi, ora accetta il Leone doro alla carriera?
«Ora sì, con gioia. Quando lamico Marco Müller (direttore del Festival di Venezia, ndr) mi propose il premio, per la prima volta, rifiutai perché mi venne davanti limmagine della maestra di scuola, che, con un sorriso, a fine anno scolastico, ti dice: Sei promosso. Adesso che ho smesso di fare film narrativi, accetto il riconoscimento».
In questo momento della sua carriera, allora, si sente più a suo agio, raccontando la vita per documentari?
«Accetto il premio di Venezia, anche perché sento che adesso sto lavorando con grande libertà e felicità. Giro documentari bellissimi e sfoglio lalbum dei ricordi, con le tracce del lavoro fatto intorno a Lalbero degli zoccoli».
Quanto è importante ricordare, con un vissuto come il suo, intrecciato, tra laltro, alla Mostra: Leone dargento per Lunga vita alla signora (1987) e Leone doro per La leggenda del Santo bevitore (1988)?
«Fondamentale, se non è nostalgia. Se serve a interrogare la vita passata, per quanto può insegnarci. Quando avvengono grandi trasformazioni, ciò che è stato finisce per essere trascurato. Ma basta un minimo di sollecitazione ed ecco che il passato rispunta».
A trentanni dal suo affresco sui contadini bergamaschi dell800, comè cambiato il nostro mondo rurale?
«Girando al Forum dei contadini torinesi Terra madre, dopo le riprese in India e alle isole Swalbard, ho incontrato contadini fedeli alla propria radice culturale, ma in modo attuale. Mantengono un rapporto leale con la terra, la rispettano».
Il rapporto con la madre terra è essenziale anche negli altri suoi lavori in preparazione?
«È il filo rosso che lega i miei tre documentari. Nonostante larroganza delluomo, la terra resta legata al grande mistero cosmico. Lo si vedrà in Rupi del vino, girato in Valtellina: là gli uomini han graffiato la roccia, traendone vigne, orti e terrazzamenti, che impediscono alle montagne di venir giù.
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